Come sempre, con gli occhi del cuore torno continuamente alle dune di Corralejo, Fuerteventura, isola delle Canarie.
Come sempre, apprezzo appieno qualcosa solo quando non ce l’ho più. E ora che sono alla fine del rapido tour dell’isola di Lanzarote, immancabile lo sguardo corre alla larga chiazza chiara che, nonostante la lontananza, corre lungo il mare fino al balcone del mio appartamento in affitto. Gli occhi si puntano sull’immensa area chiara delle dune di Corralejo e di lì non si staccano più.
Le ho calpestate e frequentate, rigorosamente in nude look, per 15 giorni, tanto da farmele venire a noia e rischiare di urlare se solo fossi rimasto un giorno di più, eppure ora scopro che mi mancano da morire quelle lunghe e belle spiagge e aree di dune senza una minima costruzione, o quasi, o presenza umana, o quasi, a deturparne la totale naturalezza. Ma d’altra parte, anche Lanzarote è stata stupefacente, e la stessa cosa mi accadrà di sicuro dopo che lunedì sarò volato a Tenerife e inizierò a fare l’ultima – o penultima ancora non so – delle isole Canarie come da programma in continuo mutamento.
Ma di Lanzarote parlerò in un altro articolo.
Fuerteventura quindi… e dire che, una volta tanto, avevo provato a immaginare a come poteva essere la mia prossima meta… Provate a pensarci un po’ anche voi. Già il nome è tutto un programma. Fuerteventura, cioè “forte avventura”, fu così battezzata da Jean de Béthencourt, il navigatore ed esploratore normanno che negli anni successivi al 1400 giunse e conquistò una dopo l’altra le tre maggiori isole Canarie. È un nome che profuma, come dire… di esotico e al tempo stesso riesce a richiamare il mito dell’esplorazione che pochi decenni dopo l’arrivo di Béthencourt avrebbe visto Cristoforo Colombo partire in cerca delle Indie Occidentali.
Fuerteventura quindi… e dire che, una volta tanto, avevo provato a immaginare a come poteva essere la mia prossima meta… Provate a pensarci un po’ anche voi.
Già il nome è tutto un programma. Fuerteventura, cioè “forte avventura”, fu così battezzata da Jean de Béthencourt, il navigatore ed esploratore normanno che negli anni successivi al 1400 giunse e conquistò una dopo l’altra le tre maggiori isole Canarie. È un nome che profuma, come dire… di esotico e al tempo stesso riesce a richiamare il mito dell’esplorazione che pochi decenni dopo l’arrivo di Béthencourt avrebbe visto Cristoforo Colombo partire in cerca delle Indie Occidentali.
Se il nome era tutto un programma, ero a conoscenza del fatto che Fuerte, così la chiamano tutti i canariones, e di conseguenza i turisti, è l’isola con più spiagge delle Canarie, e le spiagge più belle per giunta!, che con Lanzarote è la più calda grazie alla vicinanza con l’Africa (la costa africana è appena a 90 chilometri dalla punta più orientale dell’isola, ma comunque sotto la curvatura dell’orizzonte e quindi invisibile), che è la meno popolata, che è in gran parte parco nazionale protetto, che richiama frotte di giovani… Insomma, arrivando avevo l’idea di trovare spiagge belle e deserte, onde, mare turchese, un tipo di vita un po’ hippie come si conviene al mondo del surf, windsurf e, non posso dimenticare l’ultimissimo arrivato, il kitesurf che si pratica facendosi trainare da una specie di paracadute – in realtà una vela – piuttosto che dalle onde.
Con queste premesse, immaginatevi la mia faccia quando: primo, becco in tre giorni le due maggiori precipitazioni acquose degli ultimi dieci anni, questo dopo avere per due volte dovuto rinviare di un giorno la partenza perché tra mare cattivo e lo scirocco che porta la sabbia del deserto riducendo la visibilità a 20-25 metri, nemmeno i più grandi traghetti erano riusciti a partire da Las Palmas; secondo, partendo da Morro Jable e risalendo la costa orientale di Fuerte non vedo altro che scene già viste e riviste a Playa del Ingles e Maspalomas, ovvero osceni casermoni dei tour operator hanno messo il loro bel marchio anche qui, e per di più ospitano solo vecchi, o quasi; terzo, Puerto del Rosario, capitale e centro indigeno dell’isola, non si rivela altro che un porto, un punto di passaggio (non sperate di trovare camere qui… c’è solo un hotel e un hostal, una specie di alberghetto mica tanto economico…).
In questo alternarsi di delusioni ci sono stati fortunatamente alcuni raggi di sole, reali e metaforici. Fuerte è ciò che rimane emerso di un grande cratere vulcanico sprofondato in mare in una lontanissima epoca geologica. L’isola si compone di due corpi distinti: la penisola di Jandìa a sud e Maxorata a nord, unite da uno stretto istmo che porta il nome di El Jable. E Jandìa tiene fede alla sua fama nonostante la densa nuvolosità.
Scorci affascinanti si affacciano sulle Playa Sotavento, che molti chiamano erroneamente Playa Jandìa dal nome della penisola, un’area di Parco Naturale assiduamente protetta e difesa dal turismo. Ci fermiamo qua e là, e talvolta azzardiamo una discesa fino a riva sugli sterrati, per desistere quasi subito in quanto la “Corsa” presa a nolo non è notoriamente una capretta.
Le montagne sono qui ricoperte da uno strato di sabbia candida e in certe aree si sono accumulate dune che fanno ricordare Genipabu, nello stato brasiliano del Rio Grande do Norte. Ma qui non ci sono buggy in giro. Il parco e le dune sono sì accessibili, ma soltanto a piedi, almeno per ora. Scorci bruciati, da fine del mondo, preannunciano l’ingresso a Maxorata. Le montagne presentano quasi tutte una forma conica mozzata, aspri pendii che il sole e le nuvole – qui costantemente presenti a causa della vicinanza del mare e il forte contrasto termico – tinteggiano di gialli, viola e rosa. La strada che conduce a Puerto de la Pena e poi a Pàjara attraversa alcune delle valli più belle di Fuerte.
Di tanto in tanto si vedono i Mahoreros, contadini vestiti di nero, la testa coperta da uno scialle per proteggersi dal sole e dal vento. Sono i veri discendenti del ceppo indigeno originale e non quelli di recente acquisto. Vivono di coltivazioni (soprattutto pomodori) e pastorizia. Con il latte dei caprini producono ottimi formaggi artigianali dal sapore tutto particolare, provare per credere.
È un raro susseguirsi di semplici villaggi, o singole fattorie, arroccati su pendici coniche. Case e uomini che possono appartenere ad ogni secolo. Ieri c’erano, oggi ci sono e tra cent’anni ci saranno ancora. Niente sembra turbare i discendenti dei lontani berberi che rimangono fermamente attaccati alle loro tradizioni. I mulini a vento individuano i pochi, pozzi di acqua, a volte ad alcune centinaia di metri di profondità. Lungo la strada, c’è tutto il tempo di ammirare la chiesa bianca di Pàjara. Seminascosto dalle buganvillee, il portale mostra strani motivi aztechi incisi su legno: serpenti, teste coronate di piume, puma. Passando per Betancuria, giungiamo in quota. Da uno spettacolare – se ci fosse bel tempo – mirador proviamo a immaginare come sarebbe la corona di montagne dai purtroppo spenti colori rosso arancio o viola riflessi dai differenti materiali eruttati, una cartolina di incomparabile bellezza, prima di scendere verso la città di Antigua che si trova al centro della sottostante vallata.
Avvicinandosi, si delineano oasi di palmeti e mimose. Torniamo sulla costa orientale. Dopo avere schivato Puerto del Carmen, ormai alla disperazione puntiamo sempre più a nord quando subiamo una vera folgorazione.
Immaginatevi, e dài!!!, di essere ormai di umore nero, molto nero e non certamente solo per il tempo quando, dopo essere sfilati a fianco dell’ennesimo cono mozzato (sembrano fatti con lo stampo, e sono tutti identici alle forme di budino che vedevo quando ero bambino), detto La Roja, ho la netta impressione di attraversare la porta che separa il purgatorio dal paradiso, il brutto dal bello, il nero dal bianco. E infatti si attraversa una vera linea di demarcazione. Di qua terra nerastra e rossa, i ricordi di colate di lava e il risultato di millenni di sole e siccità, di là le grandi dune bianche di Corralejo si estendono per una superficie di circa 12 chilometri per 5-6 nel loro punto più largo, una cinquantina di volte rispetto a quelle di Maspalomas. Sono formate dalla rena dorata trasportata dal Sahara variegata da sabbie coralline bianche e rosa.
Nei giorni a venire vi farò molte passeggiate. Qui non c’è proprio nessun bisogno di fingere solitudine. Di solitudine ve ne è a iosa, e io cammino e pedalo felice per ore senza incrociare nessuno, se non orme solitarie di umani e lepri, piedi scalzi e gabbiani, alcuni veri e propri mirabili ricami sulla rena ancora vergine dopo una notte di forte vento.
Per la spiaggia vale lo stesso discorso. Nonostante Corralejo sia anch’essa colonizzata da tedeschi più inglesi… Abbondano english e irish pub, The Talk of the City, The Underground Pub, The Dubliner, e non poteva certamente mancare l’Hard Rock Cafè, e pure il breakfast è d’obbligo, per non citare che i locali supermercati sono pieni di prodotti quali burro, bacon e pane da tostare di almeno 12-15 tipi diversi, tutto rigorosamente d’importazione. Ma è lo stesso un bel posto. Nell’entroterra, verso sud e verso ovest, di Corralejo vi è tutta una serie di villaggi e città giardino e calette, su tutte La Oliva e la splendida El Cotillo verso cui vale la pena dirigersi in mountain bike se solo si hanno gambe (e sedere) mediamente allenati. Ma il tempo continua a non essere dei migliori.
Dopo che siamo arrivati alla meta, le nuvole passano ancora veloci, nascondendo spesso il sole, e talvolta pioviggina. Durerà altri due giorni, ma fa nulla. È per me l’occasione di dedicarmi alla scrittura, e alla ricerca di nuove dimensioni lavorative. Non c’è che l’imbarazzo della scelta anche se è e sarà naturalmente difficile prendere una decisione sulla base di una ventina di giorni di permanenza. Come tutte le decisioni, anche questa mi verrà più naturale prenderla a bocce ferme, quando sarò di nuovo a casa, e la lontananza nel tempo e nello spazio mi permetterà di sciogliere meglio i dubbi. I ricordi mi permetteranno di scegliere, tra tutti, quel luogo che nel complesso ho sentito più vicino a tutta una somma di mie personali esigenze.
È solo questione di tempo e pazienza e il sole viene fuori, risaltando il turchese cristallino delle acque, portando voglia di andare in esplorazione – io la chiamo così – ed anche di mettere un po’ in riga con nuoto, bici e corsa gambe impigrite da una marea di giorni di inattività quasi assoluta.
Così scopro la pittoresca La Oliva – piccolo villaggio tutto bianco sorto nel mezzo di una vallata verdissima grazie alla fonte sotterranea che si trova sotto la montagna detta appunto la Oliva. Perso in mezzo ai colori verdi delle coltivazioni, ocra e rossicce delle vette che la circondano sembra di pedalare in mezzo ad una collina. El Cotillo è, per chi la conosce, una sorta di isola di Budelli. Qui la sabbia è nivea, e le calette più e meno grandi si alternano prima della grande playa dove le onde, immense, e il surf la fanno da padrone. Io penso a riposare, a togliermi di dosso tutta l’umidità accumulata in una settimana di “cattivo” tempo.
E quello che vedo non potrebbe proprio accontentarmi di più… Le foto lo spiegano molto più delle mie semplici parole.