Il Canada… francese
Ho conosciuto tanti canadesi nei miei viaggi, adorando quelli residenti in Alberta, British Columbia e Northwest Territory, e trovando tremendamente antipatici quelli di Quebec e Ontario. La verità? Leggete e avrete risposta…
Cosa dire del Canada? Premetto che in tutti i miei viaggi, o quasi, ho avuto modo di conoscere canadesi, e ne ho sempre ricavato impressioni antitetiche: a- molto buone con coloro che vivono nella parte “inglese”; b- grandi delusioni con coloro che vivono nella parte “francese”.
Strano era anche scoprire che, parlandone in giro per il mondo, quelli di origine latina condividevano le mie impressioni, mentre in tutti gli altri (tralasciando per ovvi motivi storici coloro di madre lingua inglese e francese, fuori concorso) la pensavano esattamente al contrario, una divisione piuttosto netta! Solo coincidenze? Vediamo…
La premessa serve a introdurre il Grande Equivoco all’origine di questo viaggio. Avevo sempre pensato, immaginato, fantasticato che dell’immenso Canada avrei visitato l’occidente – Alberta, British Columbia, i Northwest Territory o il mitico Yukon, e invece (sorpresa delle sorprese) una coincidenza da last minute mi ha spinto verso Quebec e Ontario, in bocca al “nemico”, ironicamente parlando.
Sorprendente è stato incontrare sul volo diretto a Quebec immigrati italiani che ritornavano in Canada dopo aver visitato l’Italia, oppure italiani che andavano a trovare parenti più o meno stretti che vivono in Canada, e infine – ma pochi – canadesi “francesi” che avevano appena visitato Venezia-Firenze-Roma-Capri e tra questi mi sono subito camuffato. Rifuggire qualsiasi cosa sapori o odori italiano è la mia prima regola non appena valico o sorvolo il confine, una regola che mi ha sempre dato soddisfazioni.
Italiafobico? Forse…
Quebec City, cuore francese del Canada, è moderna e molto pulita. La parte nuova è più frenetica, ma non così tanto. Il traffico, intenso, è molto ordinato e ovunque, gente a piedi, in bici, in roller e monopattino fanno da cornice alle auto.
La parte vecchia di Quebec City è interessante e colorita. Le stradine sono piene di caffè, ristoranti, bistrò, negozi di artigianato e souvenir, boutique, il tutto inserito in un insieme armonioso di tavolini all’aperto, fioriere, isole pedonali, giardinetti, odori, forme e colori d’altri tempi. Le radici francesi sono evidentissime! È stato piacevole, e un ottimo modo per digerire il fuso, passeggiare senza meta. Ottima la panoramica dal monte alle spalle della città, con vista sul fiume San Lorenzo e l’Isola di Orleans.
A Quebec City ho decido la mia prima meta canadese del viaggio. Tadoussac, passando per Fredericton e la Bay of Fundy, sarà il punto più orientale del mio tour. È così che mi piace viaggiare, improvvisando, e pazienza se a non programmare in anticipo mi perdo qualcosa di eccellente. Mi rifarò in ogni caso con letture a casa, ma solo dopo avere cercato e assaporato luoghi con le mie sole sensazioni. C’è tanto di me, in questo, e lo trovo molto gratificante…
Incredulo, assisto alla magia della più grande marea del pianeta. Osservo dall’alto le turbolenze dell’acqua riversarsi nella Bay of Fundy come un maroso, per poi defluirne ore dopo in una unica cascata, per quanto bassa. Uno spettacolo!
Tra una marea e l’altra si passeggia e ammirano le piacevoli Fundy Isles, soprannominate “La capitale mondiale delle aragoste”. Dopo avere assistito ad un’altra “rappresentazione” della Natura, risalgo tutto lo stato del New Brunswick fino al Gaspésie Park, sulla Gaspé Peninsula che guarda all’immenso golfo creato dal fiume San Lorenzo.
Il parco è un’area poco turistica, ma spettacolare coi laghi, alberi e montagne. Un paio di trekking nelle Chic Choc Mountains mi riportano a casa, sulle Alpi, emozionalmente parlando.
Dopo un’estate che assomiglia più ad una nostra primavera, rimango un po’ stranito davanti alla nebbiolina affatto leggera che abbraccia il fiordo di Tadoussac. Il piccolo porto, le barche, i colori si fanno più nitidi mano a mano che scendo in altezza.
Quando arrivo, il sole è bene alto sopra l’orizzonte e la visibilità è perfetta. Sono qui con uno scopo ben preciso. Le balene mi avevano molto affascinato in quel di Withsundays Island, in Australia, e non vedo l’ora di ripetere l’esperienza.
Ho saltato il Museo che illustra con testi, oggetti, video e giochi interattivi, suoni e fotografie tutto l’argomento “balene”. Vi trascorrerò l’intero pomeriggio. Qui apprenderò tante informazioni interessanti e troverò risposta a qualche domanda sui più grossi mammiferi del pianeta. Ascolterò anche il loro linguaggio, ma per il momento nulla mi pare preferibile al vivere un’esperienza face to face da completo neofita, senza saperne praticamente nulla.
Si prende il largo a tutta velocità, ed è già una forte emozione. Fa freddo, ma fa anche tanto Greenpeace perché il natante sobbalza e a volte sembra decollare sulle onde che si fanno sempre più alte. Rido negli spruzzi. Gli altri quattro passeggeri devono prendermi un po’ per pazzo. A differenza loro, io non ho con me macchine fotografiche, né videocamere da proteggere dallo stillicidio sempre più intenso dell’acqua salata.
Posso rimanermene ben imbacuccato nella mia giacca d’altissima montagna, le mani sempre all’asciutto con le sole eccezioni dei quando i sobbalzi più forti mi costringono ad aggrapparmi ad un supporto. Altri due gommoni rimbalzano ai nostri fianchi. Più avanti vedo le navi dotate di ogni comfort che, partite con grande anticipo su di noi, trasportano gli escursionisti meno avventurosi. Non c’è nemmeno il tempo di fare qualche battuta sui “polentoni” che tutti ci voltiamo seguendo la direzione indicata dal braccio teso del pilota.
“Baleins!!!” grida prima di cambiare rotta.
Eccola l’emozione.
Eccola, la nostra prima balena.
Ne vediamo la pinna dorsale. Sembra piccola, ma l’impressione è completamente sbagliata ed è corretta dal successivo avvistamento, che l’esperto pilota intercetta con un tocco magistrale più simile ad una magia che ad un trucco imparato con l’esperienza, dando un occhio al mare e l’altro al sonar incastrato nella consolle.
Al suo successivo riemergere, la vediamo quasi per intero: prima la testa, poi il dorso perfettamente incurvato che pare senza fine, poi la coda, enorme!
È una gigantesca megattera, dice il pilota.
La regina delle balene è immensa vista così da vicino, e blu come il mare col quale si confonde. Al suo fianco, il nostro gommone fa la figura di un turacciolo e come tale viene sballottato mentre l’immane e candida colonna di vapore acqueo dello sfiato s’innalza di una decina di metri prima che il vento la incurvi proprio sopra le nostre teste.
Il rumore, forte e deciso, ci avvolge e scuote ancora prima dell’intenso afrore di mare che ci rimarrà addosso a lungo. Siamo letteralmente scioccati, senza parole. Nessuno se l’aspettava così. Il gommone è ora fermo. Guardiamo nella direzione in cui è scomparso il cetaceo, in silenzio, con la speranza che venga fuori dall’acqua un’altra volta. I miei compagni d’escursione vorrebbero fare la ripresa o la foto che poc’anzi hanno proprio dimenticato. Io ho un desiderio diverso… purtroppo non succede più nulla.
Il pilota spiega che il nostro è stato un avvistamento eccezionale, e gli credo perché si vede benissimo che è egli stesso ancora interdetto, stupito, prima di riprendersi e dare manetta al motore verso un punto in cui – dice guardando il sonar – si trova un intero branco.
Lo posso vedere da me, diritto sulla prua, dove un affollamento di gommoni e barche punteggia il mare. Nemmeno fosse una piccola e riparata baia portuale… Stento a credere che le balene se ne possano stare tranquille in mezzo ad un simile caos ad aspettare il nostro arrivo, e invece è proprio così, anche se le intravvediamo appena nel ribollente caos di natanti e spruzzi.
Dopo un rapido passaggio, il pilota decide quindi di allontanarsi, di cercare un’altra balena che sia tutta nostra, ma l’arrivo dei turisti impiccioni – noi – sembra immancabilmente disperderle con molto anticipo in grande profondità e poi al largo, irraggiungibili.
Facciamo lunghe soste, gli sguardi che paiono altrettanti radar, pronti a provare sulla pelle un nuovo, improvviso brivido al grido di “Baleins“, che il pilota può avvistare ben prima di noi ma ci sono solo falsi allarmi innescati dalle increspature del mare o dalle testoline delle foche che di tanto in tanto fanno capolino a mo’ di periscopio per vedere chi siamo.
Al museo ho modo di imparare molte cose sul mondo dei giganti che ho appena sfiorato. Ne esco mentre gli ultimi raggi di sole della giornata creano affascinanti riflessi su case e barche. Alcuni lampioni sono già accesi. Nell’aria c’è l’odore della legna che brucia nei camini, ma anche l’odore del mare.
L’abbraccio è morbido, languido.
Con qualche rammarico, il giorno seguente volto le spalle alla Newfoundland Peninsula e al mitico Labrador, patria del più vecchio insediamento europeo del Nord America (lo lasciarono i Vichinghi di Leif Eriksson, figlio di Eric il Rosso, che lassù sbarcò in un anno attorno al 1000 dC.) e punto su Quebec City, poi Toronto. Guido su stradine provinciali chiamate country road, belle larghe, ma normalmente vuote. Grandi cartelli stradali gialli segnalano costantemente la possibilità di attraversamenti di animali sulla carreggiata. Altri mettono in guardia dal superare i limiti di velocità, pena la multa o peggio ancora, proprio a causa degli attraversamenti, la propria morte. Non deve essere piacevole scontrarsi con un alce a 100 km/h…
A tratti sono completamente inghiottito da foreste di alberi altissimi, fitti come stuzzicadenti, in altri laghi e fiumi si aprono in mezzo a piccole distese di prateria.
A prima vista è difficile distinguere il luquido dal fogliame: a causa dell’intensa riflessione il colore dell’acqua è identico a quello del verde che la circonda. Quando la strada sale di un centinaio di metri, il paesaggio si fa improvvisamente alpino: conifere e abeti si alternano a torrenti e piccoli laghi. Rimango sorpreso dalla quantità di avvistamenti: scoiattoli, alci, un bisonte in lontananza…
Incrocio poche automobili e così, anche in movimento, posso godermi il panorama, gli scorci e anche fermarmi ogni volta che ne ho voglia per il tempo che ne ho voglia. Rare case, o meglio farm, interrompono il paesaggio, ma sono tutte stupende e con la classica buchetta per le lettere e la staccionata bianchissima attorno a prati verdi che più verdi non si può. A volte le farm preannunciano un paesino e così il trasferimento è animato da alcune soste.
Una volta decido di fermarmici e di percorrere con una bici a noleggio una pista ciclabile su cui si alternano persone a piedi, coi rollerblade, in bici. I figli non stanno sempre sul seggiolino, ma a volte pedalano col genitore in tandem, oppure sono su simpatici rimorchietti con tanto di bandiera canadese.
On the road, decido di apprendere di più dell’usanza delle garage sales, le vendite all’incanto che le famiglie fanno periodicamente per svuotare garage, cantine e solai. L’insegna è appesa alla buchetta delle lettere. L’esposizione è sul prato davanti a casa. C’è un po’ di tutto, vestiario, giocattoli, attrezzi per cucina-giardino-lavoro, libri, oggetti nuovi oppure vecchi da fare paura, ma nessuno sembra essere trascurato e men che meno rimanere invenduto.
Normalmente ho fatto tappa in campeggi o aree attrezzate. Ce ne sono tante ed è un ottimo modo di ammortizzare il costo dell’auto a noleggio, oltre che per assaporare l’essenziale della Natura, in Canada così prepotente e avvolgente che mi sarebbe stato insopportabile dormire tra quattro pareti. Ho unito l’utile al dilettevole, quindi, ma una volta ho voluto dormire in una vera casa canadese, ospite di un’anziana coppia che vive sola.
Mi hanno affittato per una notte quella che era la stanza di uno dei figli. È immutata, con tanto di fotografie che lo ritraggono durante la crescita, con i suoi vecchi o i fratelli, oppure nei vari impegni sportivi e scolastici. Ci sono altre due stanze che i nonni affittano agli ospiti. Il bagno è in comune. Lo stile della casa è nettamente country, con legno nudo ovunque. Attorno casa, solo immensi prati verdi. Il prezzo, modicissimo, comprende una colazione che è un vero pranzo. Una esperienza gradevole, assolutamente consigliabile a chi, viaggiando, non vuole rinunciare alle comodità.
Seguendo percorsi prestabiliti e sterrati, in auto o a piedi a seconda delle istruzioni, all’Algonquin Park, 300 chilometri nord di Toronto, riesco a vedere da vicino alci, cervi rossi dalla coda bianca, bufali, procioni, castori, cinghiali, scoiattoli, e qualche orso. Gli alci sono imponenti. Non mancano scene tenere, da fiaba, come procioni e cuccioli d’orso che giocano. Anche gli orsi adulti sono teneri, buffi in ogni cosa che fanno, naturalmente visti da dentro l’auto.
Sulla strada per Toronto ho modo di fermarmi in una riserva indiana. La delusione è grande. Non che mi aspettassi tepee, squaw, indiani a cavallo o abbigliati come nei film western, ma rimango di sasso davanti a un piccolo paesotto, apparentemente povero e malridotto, con case senza prato e strade senza aiuole. Vi abbondano, però, i negozi di souvenir e qualche tenda tradizionale è piantata qua e là, ma gli indiani, seppure moderni e vestiti alla maniera occidentale, sono autentici: lineamenti indiani, capelli lunghi e maniere senza tanti fronzoli. Guardo attento qualche artigiano al lavoro, ma in realtà non vedo l’ora di ripartire.
Toronto è la città più grande del Canada. È multiculturale: si dice che il 40% dei suoi abitanti sia nata al di là degli oceani. Per quel che può valere, confermo: ovunque guardo c’è gente di colore, oppure indiani asiatici in genere, qualche arabo. Gli “europei” non li distinguo…
L’emozione maggiore l’ho provata sopra i 400 metri della National Canadian Tower, non tanto per il bel panorama ma per avere camminato sul pavimento di vetro che si affaccia sulla fontana e i giardini ai piedi della torre: come camminare in cielo!
Notevole la Toronto sotterranea, costruita per vivere l’inverno, che si sviluppa tra le stazioni della metropolitana.
Sono quasi alla fine del viaggio, ma una grave indecisione mi assilla. Rimangono ancora tre giorni da spendere in Canada e guardo a destra e a sinistra, in alto e in basso, metaforicamente intendo, indeciso su quale strada percorrere per fare ritorno a Quebec City. Dapprima la direzione: sud poi ovest (giro del Lago Ontario e Niagara Falls e) o subito dietro front verso Quebec? Decido per la seconda, per risalire il San Lorenzo sulla riva meridionale.
Non lo farò per colpa delle Thousand Islands, un arcipelago formato da tantissime isolette di varie misure, divise fra Canada e Stati Uniti, in mezzo al fiume.
Un confine a zig zag ha fatto sì che la divisione fosse equa e che nessuna isola fosse tagliata a metà dal confine tra Usa e Canada. Una piccola crociera a vela mi ha portato per mezza giornata tra isolotti solo apparentemente uguali poi mi ci sono fermato! Differenti sono le costruzioni (qui case in muratura e là cottage in legno immersi nel verde e costruiti su piccoli promontori), oltre che la lingua e la grande bandiera, americana o canadese, che sventola su ogni isola.
Ogni isolotto ha la sua, lunga, storia, mai pacifica, ma tutti hanno l’unico minimo comune denominatore di sembrare completamente fuori dal mondo, lontane da ogni routine cittadina. Non deve essere male viverci. Personalmente ho apprezzato i piccoli moli affollati di barche a vela, le centinaia di vele che navigano placide ad ogni ora del giorno nelle acque appena increspate dal vento. No, non è stato male proprio per niente.
Tanti sono i belvedere. Il fiume è blu, immerso nel verde intenso. lLungo le rive, case, farm e ville di tutte le forme e colori, immancabilmente abbracciate da grandi prati. Fanno invidia.
I chioschi ambulanti di frutta e verdura, le merci confezionate in adorabili cestini di carta, risolvono quasi ogni mio problema di sopravvivenza. Mi butto immancabilmente su more, mirtilli e lamponi (fantastici, nulla a che vedere con quelli nostrani) ma anche su pancake e torte di frutta.
Tutto questo girovagare, estremamente gratificante, alla fine non mi ha dato nessuna risposta sulla mia simpatia o antipatia di pelle dei canadesi francofoni. Quelli che lavorano nel turismo sono tutti solari e disponibili, ma non fanno ovviamente testo. Di canadesi francesi autentici non ho avuto occasione significative di conoscerne. Forse la verità è che se fossero davvero antipatici e snob come mi sono sembrati in altri Paesi, e come in realtà mi aspettavo, avrei dovuto avere numerose occasioni per notarlo anche a casa loro, sulla mia pelle, e invece non è successo.