
Il Tibet, oggi… Seconda parte
Il mio viaggio a quello che è il Tibet oggi (Everest scluso)…
Dopo l’Everest inizia un viaggio diverso, molto diverso, a bordo delle gowa, piccole barche a remi di pelle di yak, sul fiume Kyi-chu. Partiamo da Lhasa, cui abbiamo fatto ritorno con una nuovissima e veloce strada asfaltata. Apparentemente lontani da tutto e da tutti, è l’occasione di visitare luoghi di grande importanza storica, e siti ancora minori di quelli visti sul tragitto verso il campo base dell’Everest. Le ore sono scandite dal rumore dell’acqua, dei remi, del vento, onnipresente, dalla maestosità dei paesaggi.

Si parla poco, vuoi perché si è naturalmente intimiditi e interessati a tutto ciò che ci circonda, vuoi perché – per quanto quella situazione sembra essere del tutto normale per i rematori che governano la barca – per noi ogni istante è carico di un minimo di tensione. Spiagge di finissima sabbia bianca si alternano a macchie verdi di rigogliosa vegetazione (non dimentichiamo che navighiamo sui 4000 metri slm!), il tutto con lo sfondo degli Ottomila. La tensione svanisce col passare delle ore, grazie anche alla simpatia dei rematori, che ridono sempre, anche quando il vento è così forte da costringerli a remare con forza anche se si sta scendendo la corrente!
A Dorje Drak, un monastero costruito sulla riva del fiume, fino a pochi anni fa la sola via di comunicazione (oggi, una nuova strada appena costruita dai cinesi porta di qui a Lhasa), facciamo una breve tappa. Poi ancora ore di navigazione fino e a Ngadrak. Un trattore ci trasporta su una china molto impervia fino alla nostra tappa, il gompa di Zade, a 4400 metri slm.
Dopo due notti nei campi tendati, si dorme su un letto vero, con coperte e lenzuola pulite, in una camerata colorata. Inizia qui un piccolo programma di trekking, camminate impegnative che ripagano con bei paesaggi e incontri significativi con chi qui ha scelto di vivere in isolamento e meditazione.
Una delle escursioni a piedi ci porta alle grotte sacre di Drag Yongzom, una serie di cunicoli scavati nella roccia, all’interno dei quali un importante maestro indiano visse in meditazione. L’ascesa all’ingresso è ripidissima e poi ci si infila in cunicoli così stretti e bui da risuscitare paure infantili. Non è solo il buio: a volte i passaggi sono così angusti e bassi che si deve letteralmente strisciare. Pensate a quale sorpresa nel giungere ad un interno molto frequentato, relativamente s’intende… Ci sono diversi tibetani in pellegrinaggio – chi si intrattiene per giorni, chi per settimane – e ovviamente ci sono i monaci.

Il viaggio sta per finire quando saliamo sul pulmino per Lhasa. Si ha quasi una replica esatta della prima parte del viaggio, zone simil sahariane comprese, solo che si sale molto di più. Meravigliosa la zona dei laghi considerati sacri dai tibetani, ma fuori dal pulmino è difficile resistere a lungo nel vento che mette a dura prova le tende dei nomadi, che scuotono incessantemente le onnipresenti bandierine di preghiera, i messaggi del Budda. Quando vediamo Lhasa, e poi vi ci immergiamo, il salto temporale è scioccante. Lo immaginavo, ma non così: mai vissuto nulla del genere nei miei viaggi…
Lhasa è una grande e moderna città cinese con traffico, smog, semafori e negozi ovunque. Per fortuna, il nostro alloggio è nella parte vecchia della città. C’è atmosfera e anche tranquillità nonostante ristorantini, ambientini molto carini si succedano al pian terreno di vecchie case tibetane. Verso sera le stradine sono ancora piene di vita. Qui non si avverte la tensione toccata talvolta drammaticamente con mano nelle lande tibetane più remote… forse è solo una mia impressione, o forse i pochi tibetani rimasti si sono abituati in fretta alle maggiori comodità del progresso, ad una diffusa tranquillità che fa da contraltare al caos politico/sociale che impera nella vicina Khatmandu, ad esempio, o nella regione del Ladakh indiano…
Ma non si può venire in Tibet senza visitare il Potala, ed è sempre nei suoi paraggi che passo tutto il mio tempo a Lhasa: dal vivo, di notte o di giorno, col sole, con la pioggia e tra le nuvole, mi dico in continuazione che non esiste al mondo un edificio tanto fiabesco. Le più belle foto mai viste non gli rendono per nulla giustizia… La visita al Potala è invece deludente: appena entrati, si dispone di appena un’ora per la visita, quindi ci si affretta con buona pace del mio desiderio di visitarlo “a modo mio”, lasciandomi guidare dalla curiosità, dal caso.
Ritorno allo “shock” della modernità solo nell’ultimo giorno. La strada per l’aeroporto è diritta, levigata, veloce, con piazzole di soccorso, telefoni ogni cento metri e gallerie luminosissime con enormi aeratori. Tutto ciò è forse criticabile ed esecrabile, soprattutto lo è che sia stato fatto dai cinesi imperialisti e non dai tibetani che, avessero potuto decidere, non avrebbero fatto e voluto tutto questo. Forse i cinesi stanno davvero stravolgendo ogni senso del Tibet, però il livello di vita della gente comune tibetana – fin negli angoli più remoti – è certamente molto migliore in Tibet che non nei paesi vicini, nel Ladakh, in Nepal…
Mi piacerebbe concentrare tutta la mia attenzione riscontrata ovunque sull’evidente mancanza di libertà sotto il regime totalitario cinese, ma devo anche fare una considerazione pratica: ditemi voi quale parte del mondo è rimasta intatta e incontaminata dalla modernizzazione? Non è forse vero che anche noi occidentali, che abbiamo tutta la libertà di decidere, in fondo nella stragrande maggioranza dei casi lasciamo che siano altri a farlo per noi?
