La vita semplice, racconto di viaggio tratto da “Cubalibro”
Le immagini sono di Adolfo Carli.
ll turista si serviva spesso delle organizzazioni turistiche statali, ma quella che negli anni ottanta era soltanto l’iniziativa di poche persone, una piccola nota di colore in un viaggio a Cuba, con gli anni novanta si era trasformata in una organizzazione capillare in cui ogni cubano funzionava da contatto tra chi domandava un servizio e chi lo offriva. La figura del mediatore domina il cambiamento sociale della Cuba di questi anni.
La mediazione di servizi illegali di vendita o di affitto, consentiva ad ogni persona di decuplicare il proprio salario senza faticare e rischiare guai con la polizia. Quello che spesso iniziava come una conoscenza casuale e piacevole, poteva facilmente trasformarsi in un rapporto assillante. Infatti, il mediatore intascava la metà di ogni cifra che veniva pattuita e non erano pochi quelli che cercavano di ottenere l’esclusiva, trasformandosi in veri tormenti per i turisti caduti incautamente nelle loro reti, sorvegliati dal momento in cui si svegliavano fino a quando andavano a dormire, ormai esasperati dalla invadente presenza.
Io non ho mai avuto questi problemi, spendevo troppo poco. Trattavo direttamente con chi mi offriva realmente il servizio perché il mediatore era disposto a concedermi tutto dal momento che guadagnava comunque la metà senza spendere nulla. Non mi mettevo mai nelle mani di una sola persona, come Trinidad mi aveva insegnato. Chiedevo e mi informavo sempre: tutti erano gentili con me. Da mediato a mediatore, il passo era stato breve dopo appena qualche settimana che viaggiavo, ed ero contento per i miei amici quando li aiutavo a fare sganciare soldi al turista.
In fondo al cuore, però, ne ero anche dispiaciuto. Pensavo che, alla lunga, certe abitudini avrebbero finito per rovinare un popolo che avevo conosciuto estremamente altruista. È facile ragionare in questa maniera quando si ha la possibilità di tornare a Cuba, con le tasche piene di dollari, ogni volta che lo si desidera, ma la verità è che ho amato tantissimo quel tipo di vita senza tempo, senza altre necessità che non fossero un letto per dormire, un piatto di riso per mangiare e tanta gente con cui ridere e parlare. Un vivere in semplicità che mi ha stregato.
Il vero lato negativo di Cuba era la mancanza di libertà individuali assolutamente insostituibili. La libertà di pensarla come si vuole senza venire colpiti dalla repressione del regime, che arriva a perseguitare la famiglia stessa di un dissidente.
Vivere senza imposizioni, ricevere la posta a casa e ascoltare altre opinioni, essere liberi di informarsi. Se tutte queste cose cambieranno, potrei davvero partire con l’idea di vivere a Cuba sino alla fine dei miei giorni, per tornare a immergermi in un tempo per il quale avevo sempre pensato di essere nato tardi.
Già, la vita semplice.
Mi piaceva paragonare il cubano all’italiano del boom demografico: una vita di lavoro per dare una casa alla propria famiglia. Le cose non sono molto diverse ora, ma noi ragazzi partiamo molto più avanti grazie al lavoro ed ai risparmi di tutta una vita dei nostri genitori. Loro non credevano che un giorno avrebbero avuto tutti la macchina e i soldi per l’aereo. Erano idee fantascientifiche, allora, lontane come (adesso) per noi un week-end sulla luna.
Mi divertiva spiegare questo concetto agli amici cubani e ai loro genitori. Mi osservavano a bocca spalancata, increduli: pensavano che raccontassi delle favole. Guardavano i turisti che arrivavano e spendevano a piene mani, vedevano i dollari uscire come fiumi inesauribili dalle loro tasche e pensavano, a torto, che il mondo fuori dai loro confini fosse un unico, grande Paese della Cuccagna dove i soldi crescono sugli alberi.
Abituati a vedere i turisti soltanto quando sono in vacanza, era fiato sprecato spiegare che, dovunque, la maggioranza della gente lavora per pagare il mutuo della casa, le rate dell’auto e dei mobili, i divertimenti e i vestiti; che mille dollari di stipendio al mese sono ben pochi anche per chi raccoglie i vantaggi dai genitori, e che soltanto con certosina pazienza i ragazzi raccolgono nell’arco di un anno quegli stessi soldi che poi dilapidano spensieratamente in due settimane di folle vacanza a Cuba.
Quasi ogni famiglia cubana possedeva il televisore, la radio, la bicicletta, la lavatrice: tutte di produzione sovietica. Qualche famiglia aveva il telefono, pochissime la macchina. La gente si spostava per lo più a piedi e en botella.
La sera tutti si trovavano insieme sulle calles a sbirciare la televisione a colori dalla finestra del vicino, a fare salotto sulla via o in una casa dove si entrava senza nemmeno bussare, a passeggiare respirando il fresco. Per realizzare una serata diversa erano sufficienti una bottiglia di ron e il refresco per allungarlo, un sigaro e qualche sigaretta, una radio accesa sulle note della salsa.
I cubani condividevano tra loro quel che avevano, forse perché avevano poco da dividere. Era una regola rispettata ovunque a Cuba: ci si passava la bottiglia o il bicchiere di ron, il cigarro, il famoso Avana cubano o il cigarillos, la sigaretta senza filtro… La persona igienista storcerebbe il naso ovunque.
Alle sei di sera, quando gli ultimi raggi di sole della giornata allungano all’infinito le ombre sui lastricati, nelle calles che rinfrescavano era l’ora della passeggiata. I più giovani approfittavano di questa passerella per intrecciare nuove storie o per coltivare i loro amori. Il sabato sera, la domenica e nei giorni di festa, ogni padre portava la sua famiglia a passeggio o alla spiaggia. Tutti, indistintamente, indossavano per un giorno i vestiti migliori. Mi rammentavano le mie domeniche di bambino.
Nei piccoli paesi, si dormiva già alle nove di sera. Le città e le località turistiche offrivano sempre le possibilità per fare tardi, ma le vie diventavano comunque deserte con il buio.
Non ho mai apprezzato le discoteche di Cuba, le trovavo caotiche, note stonate in quella realtà. Le poche volte in cui sono entrato, le occhiate delle ragazze erano troppo dirette e il rumore troppo assordante per me che non ero più abituato. Più di tutto, mi infastidiva vedere come i turisti si ammassassero attorno a due ciglia intermittenti. Sembravano tanti bambini golosi davanti ad un dolce.
Così, preferivo lasciarmi portare a caso dai miei passi finché non udivo i muri rimandarmi indietro leggere note ballabili. Allora mi addentravo nelle calles più strette e, seguendo nel buio l’invisibile filo delle note musicali, mi affacciavo immancabilmente in una cafèteria oppure in un Centro Cultural. Lì trascorrevo le mie serate, ascoltando musica tradizionale a volume tollerabile, oppure ballando la salsa tra cubani di ogni età.
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