Racconto di viaggio a Lanzarote, l’isola di Cèsar Manrique, di gran lunga la più affascinante delle isole Canarie.
La cosa più sorprendente e stupefacente di Lanzarote è stata vedere coi miei occhi la fusione tra arte e quotidianità, realtà e sogno. Lanzarote è la dimostrazione di come il progetto di un uomo di sposare la sua terra alle sue visioni si sia perfettamente realizzato e si perpetui grazie alla sua immediatezza ed efficacia. Questo è, né più, né meno, quanto ha realizzato Cèsar Manrique, un personaggio fuori del comune…
Lo spirito libero e ribelle, i colori forti, le forme visionarie, le linee scarne e al tempo stesso rivoluzionarie, i materiali semplici e naturali delle sue opere gigantesche racchiudono e svelano da soli lo spirito di Lanzarote e viceversa.
Archiettto e artista, Manrique è per l‘isola di Lanzarote quel che Cristo è per i cristiani: un profeta, una guida, la prova che niente è abbastanza grande da non potere essere contenuto nel cuore di un uomo. In tutta l’isola si respira la sua presenza. Il bianco è – quasi – l’unico colore estraneo al paesaggio naturale, composto di tinte scure, forti, spesso drammatiche. Proprio il bianco trasforma un ambiente, che sarebbe altrimenti estremo, in un insieme fiabesco e rilassante, giocoso e armonioso che giorno dopo giorno aumenta la voglia – del viaggiatore – di trasferirvisi a vivere per sempre.
Con la sua pulizia e i suoi accostamenti, i paesini da cartolina e i campi spettacolari, i profili a volte arrotondati e morbidi, altre netti e taglienti, i forti contrasti cromatici, Lanzarote è un immenso giardino curato nei minimi particolari. Assomiglia ad uno di quegli spazi zen silenziosi e ben proporzionati, rilassanti e ricostruenti per l’anima, dove in ogni angolo batte un tempo senza tempo.
Il turismo e i suoi indotti “massivi” punteggiano molto le coste, ma le città-villaggio turistico di Lanzarote sono da vent’anni obbligate a seguire un piano regolatore fatto di rigidi vincoli architettonici, di misure, di materiali, di linee e di colori.
Cèsar Manrique, preoccupato di impedire il deterioramento della sua isola dagli influssi del turismo nordico, grazie al prestigio e all’influenza guadagnate esponendo a Madrid, Londra e New York, alla fine degli anni ’60 chiese e ottiene dal governo spagnolo che Lanzarote venisse dichiarata “isola protetta di speciale interesse turistico” per decreto governativo.
Da allora, quattro è il numero massimo di piani in altezza, è introdotto l’obbligo di curare e proteggere le aree verdi adiacenti, comprese la fauna e la flora endemiche, diventa addirittura imperativo riverniciare a calce i fabbricati e le case, è proibita qualsiasi tipo di pubblicità stradale (anche se ne troverò), si fondano e finanziano parchi naturali protetti.
Nei punti di forza dell’isola l’artista-architetto ha dato il meglio di sé. Egli progetta e realizza illuminazioni, architetture e abbinamenti di colori e materiali e gli arredamenti per il Jameos de Agua, le Cuevas del Los Verdes, Timanfaya e il Mirador del Rio, più altre attrazioni minori.
Cèsar Manrique impone piani urbanistici perfettamente sposati all’ambiente per Teguise, Yaiza e Uga, villaggi gioiello dell’isola – che tanti altri hanno imitato – le cui abitazioni sono tutte belle, armoniose, spettacolari, calde e ridenti come baite di montagna.
Il suo disegno, le sue opere e il suo sogno sono spiegati ed esposti nell’ampia area della Fondazione Cèsar Manrique, che tutto sommato si rivela una piccola delusione dopo avere “bevuto” ad occhi costantemente sgranati la maestria con cui si è cimentato in tutta l’isola.
La mia non è una opinione da intenditore, sia chiaro. Francamente, non capisco l’arte e difficilmente l’architettura è capace d’emozionarmi. Ma le opere di Manrique nel contesto di Lanzaroe… beh, quelle sono davvero emozionanti!
Puerto del Carmen, come Playa Blanca e Costa Teguise, sono un ribollire di tedeschi ed inglesi, e presentano vie che ricordano Dublino piuttosto che Amburgo o Londra per la presenza di locali in tema e pub del tutto originali che paiono smontati pezzo per pezzo e qui ricostruiti. A proposito: tutti o quasi i ristoranti e locali sono rifiniti fin nei minimi nei particolari: l’influenza di Manrique è giunta fino a loro.
Detto questo, vi informo che a Lanzarote si paga tutto, tranne l’aria per respirare, o almeno non mi risulta che nei conti pagati vi fosse presente un’imposta in tal senso. Si paga per andare in spiaggia (allora tre euro per accedere in auto alle playa Colorades, Mujeres e Papagayo, nella punta sud orientale, ma in alternativa si possono sempre fare tre o quattro chilometri a piedi) ma finché l’isola rimane tanto pulita e particolare è un piacere contribuire in prima persona al suo perpetuarsi e al suo mantenimento per i decenni e le generazioni future.
I contadini locali, che si chiamano mago, sono invece i veri artefici degli scorci agricoli più spettacolari delle isole Canarie. Sono riusciti a inventare una tecnica agricola del tutto particolare quanto efficace, una maniera di coltivare i terreni che ha trasformato larghe aree dell’isola, le più recentemente devastate dall’eruzione dei vulcani di La Corona e Timanfaya, in attrazioni turistiche.
Con perseverante pazienza e inventiva, i mago prima rimossero le pietre di lava una ad una, poi ararono la terra e in quel che rimaneva scavarono buche profonde in fondo alle quali piantarono radici di vitigni e cereali, ricoprendo il tutto con uno strato di ceneri vulcaniche, chiamato picòn. La tecnica ebbe subito successo perché le ceneri vulcaniche assorbono come spugne l’umidità che ogni notte si forma per le notevoli escursioni di temperatura tra il suolo – in costante attività geo-dermica, oltre che arroventato dal sole del giorno – e l’aria, umidità che la forza di gravità raccoglie poi in fondo alla buca e attorno alle radici permettendo alle piante di prosperare in un’isola che non possiede minimamente acque di superficie. Ma ancora non era sufficiente. Sul lato orientale di ogni buca, o comunque quello più esposto, i mago hanno imparato ad erigere piccoli muri di pietra vulcanica che riparano le piante dal vento caldo, e spesso impetuoso, proveniente dall’Africa.
Procedendo verso Timanfaya, le Montagne del Fuoco, sembra di entrare in un mondo marziano. Il suolo è un mare nero di lava pietrificata in mezzo al quale marmi e rocce di colori diversi inviano riflessi iridescenti e fatati. Su di essi, i coni dei crateri tingono di viola, rossi e ocra il cielo blu, oppure dune di sabbia nera o rossiccia o verde appaiono come altrettante onde pietrificate nel momento di infrangersi. Qua e là alcune rocce, o bolle di roccia, solidificate in forme strane, dagli angoli duri, ricordano l’avvenimento catastrofico che creò un tale prodigio.
Il parco di Timanfaya fu creato dalla disastrosa eruzione del 1730, i cui effetti sono evidentissimi in una foto presa dall’alto, presente nel museo annesso al Jameos de Agua. Ancora oggi il parco mantiene un’elevata attività geo-dermica: a 60 centimetri di profondità, le pendici conservano una temperatura di 400 gradi (140 gradi a soli 10 centimetri, tanto che il locale ristorante usa, per cucinare la carne, la griglia naturale su un pozzo aperto sul suolo sottostante).
Dopo Timanfaya, attraversando l’area vinicola di La Geria, si raggiungono facilmente le saline della Laguna del Janubio e annessa spiaggia nera, il punto in cui la colata di lava incontrò il mare di El Hervideros e infine lo specchio d’acqua intensamente verde di El Golfo.
Interamente scavato nella roccia, il Mirador del Rio – che anche senza l’intervento di Manrique sarebbe lo stesso il punto panoramico più spettacolare di tutte le Canarie – permette uno sguardo agevolato e a occhio d’uccello sulle isole di La Graciosa e, più lontano, sull’isolotto di Allegranza.
La Graciosa pare una mano candida sul mare aperto, mentre Allegranza è in pratica il cratere conico emerso di un vulcano sottomarino. Alto 256 metri e circondato da un mare indaco, sembra l’ultimo lembo rimasto di una antica terra improvvisamente sprofondata in mare.
Meraviglioso è l’effetto ottico, detto della fata morgana, che regala il Los Jameos de Agua (jameos è il nome della cavità che si forma e poi si pietrifica naturalmente durante l’eruzione di magma). La visita nella – poca – luce diurna vale il prezzo del biglietto, ma deve essere ben poca cosa in confronto a come deve presentarsi ed essere suggestiva di notte.
In un altro jameos, Manrique ha ricavato una sala per conferenze, concerti e spettacoli teatrali che può accogliere fino a mille persone. L’acustica è notevole, come la suggestione, purtroppo entrambe sono state a lungo crudelmente violentate e infrante da un gruppo di chiassosi “vandali” (non mi viene di chiamarli con un altro termine) di Verona.
Lo stesso fenomeno dei jameos ha creato le Cueva de Los Verdes cui si giunge seguendo una stretta strada a modello irlandese. Un tempo utilizzate come rifugio dai guanci per sfuggire alla cattura dei pirati catalani e marocchini, collegate col teatro e il Jameos de Agua che a sua volta è collegato col mare attraverso grotte abissali ricche di flora e fauna del tutto particolari, un sistema di grotte e cunicoli porta fino ai piedi del vulcano La Corona. I due luoghi sono però distinti, come distinti sono gli ingressi e, naturalmente, i pedaggi.
Infine Teguise, che vanta il centro storico più bello dell’isola, ed anche notevoli negozi di artigianato. Inoltre, appena fuori del paese, il punto panoramico di Guanapay, nella fattispecie un fortino costruito dai barbareschi che razziavano continuamente l’isola, domina questa parte dell’isola e sulla costa occidentale.