Il Monte Sinai è la montagna di Mosè, ma il tuo primo comandamento deve essere: NON PRENDERE IL CAMMELLO…
Monte Sinai, “la montagna di Mosè” come è localmente chiamata, si trova a tre ore di autobus da Sharm el Sheik o Dahab. Sebbene non siano pochi i viaggiatori che si prendono la loro bella dose di sacrifici – e relativa perdita di sonno – per vedere la magia dell’alba vista dalla sua cima, questa è una escursione relativamente poco conosciuta. Avrete già capito che c’è da perdersi una notte di sonno…
La partenza avviene verso le otto di sera. L’intenzione di schiacciare un pisolino lungo il tragitto è presto svanita. La notte è molto calda e i finestrini aperti provocano una fastidiosissima turbolenza, ma soprattutto fanno entrare la fine sabbia del deserto che, sommata al caldo e all’umidità presenti all’interno del mezzo, rendono la pelle appiccicosa come se si stesse correndo sulla polvere. Così mi affaccio al finestrino. Nella notte, resa più nera dall’immaginazione di trovarsi in mezzo al deserto, i miliardi di stelle e una piccola falce di luna sfolgorano esattamente come in certi sfondi stellati dei miei presepi di bambino. La notte non era, infatti, nera, ma blu… un blu indaco molto carico e suggestivo.
Siamo arrivati ai piedi della salita alle 23, ma la partenza della scammellata – il termine è d’obbligo visto che con noi sarebbero saliti pure diversi cammelli con sopra i turisti più pigri – era in programma due ore più tardi. Strano che persino nel mezzo del deserto si dovesse attendere, sia pure per far coincidere l’arrivo in cima al Sinai col sorgere del sole. Nessuno vieta di compiere l’ascensione in orari diversi, di giorno come di sera, però tutti salgono per essere in cima poco prima dell’alba. Potevo forse sottrarmi?
Ho il tempo di fare qualche domanda. Di tutte, l’idea di utilizzare il trasporto pubblico fino al campo beduino alle pendici del Sinai – da utilizzarsi come base di pernottamento all’escursione – appare subito la migliore. Non fraintendete. Solo da lontano un campo beduino può appare come un disordinato ammasso di legno e tende. In realtà, si tratta di veri e propri quartieri fissi, con tanto di centro ricreativo, negozi di pietre semi-preziose, artigianato, olii essenziali, profumi, spezie, abiti beduini nuovi e di seconda mano, mense e sale VIP, che offrono oltre a semplici ed economici dormitori anche mini-appartamenti con tanto di servitù e camere doppie, chiamiamole così, dotate di ogni comfort – doccia calda e un fac-simile di aria condizionata – a chi vuole o può spendere di più. Molti sono coloro che si accontentano di sacco a pelo e un po’ di spazio sul nudo terreno sotto le stelle. Questo è ciò che risalta abbastanza visibile alla luce di poche tremolanti candele di sicurezza.
Anche se le due ore non sono andate perdute, per quel che mi riguarda avrei lo stesso voluto partire subito. Per lo meno mi sarei evitato una ressa tipica da shopping da ore di punta, o quasi… Ma è tutto relativo. Come forse qualcuno saprà già, non sono nuovo, né mai lo sarò, a scelte sbagliate, ma tanto succede a chi parte senza minimamente informarsi, o quasi, su cosa troverà. Da una parte si vivono emozioni genuine, in linea col proprio stato d’animo e voglia del momento, dall’altra si prende quel che capita. Col senno di poi mi sento di consigliare un’escursione che parte prima di tutte le altre per arrivare in cime bene in anticipo, a passiamo oltre.
Il mio pentimento è iniziato da subito anche se la vista di cammelli e delle persone che lentamente ascendevano alla sommità del Sinai punteggiando il fianco della montagna di una fila quasi ininterrotta di luci era di per sé una scena molto suggestiva che non dimenticherò mai. Ammantava il tutto di un tale sapore biblico che non sarebbe stato difficile udire una voce cavernosa e antica, o immaginare accendersi improvvisamente il fuoco divino anche ad uno più sano di mente di me.
“Questo è il monte più famoso del mondo…” “Qui Mosè ha visto Dio…” mi dicevo a causa della numerosa compagnia, puntualmente ironico da ateo quale sono. Ma la roccia pareva vibrare sotto i miei piedi. Tanta suggestione confermava in la natura divina del luogo. Certi posti sono naturalmente magnetici e misteriosi, oggi come tremila anni addietro, senza che nessuno ne debba scrivere. Dipenderà dal fatto che sono così inusuali, alieni alla nostra mentalità e ritmi occidentali, come lo erano allora su animi semplici, sarà che quei contorni regolari che emergevano da rade chiazze di luce assomigliavano ad un’immensa opera architettonica, sarà… ma mi sono mosso sempre più lentamente e rispettosamente, direi quasi che evitavo di respirare per non fare rumori inutili.
Dimentico un dettaglio. Faceva freddo, molto freddo, anche se non tanto da giustificare gli otto strati di abbigliamento, dalla T-shirt di cotone sulla pelle, fino alla pesante giacca a vento finale, un eterogeneo insieme di taglie e colori stonati rimediati rovistando nella mia valigia e mendicati tra gli avventori del mio ostello, alcuni dei quali sembrano sempre partire per ogni destinazione con tutto quel che ipoteticamente potesse servire. Alcuni viaggiatori devono mantenere praticamente invariata la composizione del loro armamentario di viaggio sia che si rechino a Parigi come al Polo Nord o alle Seychelles, tanto sono attrezzati sia per un gala reale come per recarsi ad una danza tribale. Uno a zero per loro, comunque. Io, come viaggiatore, sono proprio negato, accessoriamente parlando: curiosità tanta, ma in quanto a praticità… stendiamo un velo pietoso che è meglio.
Per la cronaca, io non mi porto dietro mai più di tre cambi completi e due paia di scarpe (+ ciabatte) per due settimane. Finisco per usare sempre le stesse cose, ma in compenso non so cosa significhi l’angosciante attesa al ritiro bagagli e l’ancora più angosciante smarrimento degli stessi. Uno pari.
La salita, dicevo… Ho iniziato presto a riporre nello zaino gli indumenti in eccesso, uno dopo l’altro, con continui svesti e rivesti quando sono arrivato al leggero k-way impermeabile che indossavo sulla felpa. A vedere come i passeggeri che ondeggiavano sui cammelli si stringevano nei loro voluminosi infagottamenti, direi che faceva proprio freddo. Forse è stata la stagione (invernale), ma in ogni caso è meglio camminare per non giungere in cima ghiacciati. Ecco spiegato il Primo Comendamento del titolo…
Dall’oscurità emergono le mura del St. Catherine Monastery… una chiesa greco ortodossa sul Monte Sinai. Avrei immaginato una Moschea o, al limite, una sinagoga, e francamente questa scoperta mi lascia interdetto. Contribuisce non poco il pesante silenzio in cui le mura sono avvolte. Infatti, al loro riparo il rumore incessante del vento cessa del tutto lasciando posto ai rumori di passi di umani e animali sulla roccia, a qualche risata lontana e a meno piacevoli rumori di masticazione e di naturali eiezioni naturali di animali. Il monastero è, naturalmente, chiuso, e ce lo lasciamo presto alle spalle.
Alle tre del mattino, dopo due ore di ascesa, terminiamo il primo tratto con una fermata al secondo punto di ristoro (il primo era stato al campo beduini, prima di iniziare la salita). Attenderemo fino alle 5 prima di attaccare l’ultimo tratto, quindi velocemente reindosso tutti gli strati tolti e sorseggio lentamente il tè bollente per mantenere il calore corporeo. I cammellari non godono di altrettanta fortuna e sono a un buon punto di congelamento. Qualcuno è addirittura salito con le reef shoes, bontà sua… li vedrò sborsare felici 10 libbre egiziane per affittare pesanti coperte grigie da avvolgere alle estremità ormai livide. Il clima, poco piacevole, viene frantumato dall’entrata improvvisa di un grande gruppo di pellegrini cristiani francesi. Il loro entusiasmo è contagioso, e non è da meno il notevole e benefico calore che essi aggiungeranno all’ambiente.
Si riparte e il freddo aggredisce subito la pelle. La seconda parte della salita è davvero ripida, lungo gradini e gradoni di pietra, un migliaio in tutto. Siamo tutti a piedi, ora. Ogni cinque minuti facciamo una sosta, allontanandoci dal ciglio senza protezioni. E’ facile capire come la salita sia a rischio di incidenti. Il vento è, infatti, molto forte. Concentrato unicamente su dove metto i piedi, le soste sono le uniche occasioni in cui posso guardare tranquillamente il cielo. Non mi sarei mai stancato di farlo perché la sensazione di galleggiare nel cosmo, tra le stelle, è piuttosto netta.
La guida ci aiuta nei punti più complicati illuminando con la sua torcia dove appoggiare i piedi in sicurezza, così si sale più lentamente. Prima di uno strappo una stella cadente attraversa il cielo. Mi si rompe il fiato dalla meraviglia prima che la guida – ma non poteva tacere? Cosa sperava di ottenere?!? – si mettesse a saccentare sul fatto che sulla montagna di Mosè e dei 10 comandamenti le stelle cadenti si vedono numerose in ogni notte dell’anno. Decido di isolarmi da qualsiasi, ovvero spengo i miei apparecchi acustici. Voglio riuscire a portarmi a casa qualcosa di esclusivamente mio, e ci riuscirò.
Il cielo a oriente comincia a schiarire. Abituato alle albe nostrane, erroneamente credo che ci vorrà ancora un po’ prima che albeggi, ma qui di nostrano non c’è nulla. Questione di un minuto, forse due, ma comunque un tempo molto breve, e le dita di luce si allungano verso di noi con la velocità delle meteore. Giungiamo in cima al Sinai più o meno contemporaneamente al sole che fa’ capolino sopra le nuvole che velano l’orizzonte. Una corona prima rosa, poi intensamente rosso fuoco e infine gialla, scolpisce gli strati di vapore acqueo prima di disperderli come fumo nel vento. Nell’aria tersa si accende una luce inimmaginabile e cristallina.
Ci fermiamo. Da lassù fisso il territorio di quattro nazioni senza i confini che compaiono su ogni mappa. Si tratta di un nudo e scarno pezzo di terra, ancora oggi uguale a come lo vide Mosé o quasi. Ora capisco meglio il senso di tutto: ho voluto portare il mio personale pellegrinaggio e la mia comprensione contro le guerre di religione (di religione?!?) e le cattiverie che ancora oggi infiammano i popoli a poche decine di chilometri. E’ giusto ricordarcelo, di tanto in tanto.
Un tè ha seguito le congratulazioni della guida beduina. Qualche persona anziana le ha meritate di sicuro, non tanto per la salita in sé quanto per volontà di sentirsi ancora curiosi, e giovani e vivi, a dispetto dell’età, più giovani e vivi di coloro che in quel momento, a decine di migliaia, stavano ancora dormendo profondamente nei loro comodi letti, nei resort. Spero di essere come loro, mi dico con una certa ammirazione, di ricevere gli stessi complimenti in numerose lingue ancora all’età di 60-70-80 anni.
Infine, con esagerata untuosità, la guida richiama l’attenzione su una pietra, posta sul punto più alto della montagna. Sulla pietra vi è semplicemente scolpito un grande numero, 11. Tutti sappiamo con immediatezza cosa significa, e naturalmente ricordiamo il motivo per cui siamo lì. Ci aspettiamo qualche trovata, ma le braccia mi cadono letteralmente non appena la guida riapre bocca. Purtroppo per me, avevo appena riaperto le orecchie al mondo.
“Thou shalt tip thy guide GENEROUSLY” (in inglese molto storpiato, “gratifica generosamente la tua guida” più o meno…)
Le risate fragorose mi feriscono. Non c’è più religione. Mi rifiuto di lasciare anche mille misere lire egiziane. Del tutto spontaneamente e sentitamente, pronuncio invece alcune parole di ringraziamento a Chi si trova più in alto di tutti.
Per il ritorno, decido per una strada diversa, una discesa lungo circa 3000 gradoni sul versante opposto del Sinai che hanno pesato non poco sui piedi già un po’ provati, ma ne è valsa la pena. Il percorso, che non è eccessivo definire incantato, attraversa tunnel e archi naturali, ed è relativamente poco affollato.