Viaggiare…

Serial killer Australia

Palpitante racconto liberamente tratto dal volume “Australiando: riscoprirsi camminando tra Natura, Genti e Miti“, monografia di viaggio fai-da-te con grandi emozioni nell’Outback dell’Australia.

Sono sbucato sulla radura erbosa dell’ostello nel momento in cui gli ultimi raggi di sole sfioravano le cime appuntite dei monti del Granpians National Park, dello stato di Victoria, Australia. Abbandonando le loro comode posizioni, profumati e freschi di doccia, tutti gli ospiti dell’ostello mi hanno accolto con grandi sorrisi e manate sulle spalle. Era Natale, d’accordo, ma solo quando sono entrato in cucina mi sono spiegato l’allegra rilassatezza in luogo della frenesia pre-cena che mi ero aspettato, e avevo temuto perché affamato.

La tavola era magnificamente imbandita nella più classica delle cene natalizie australiane: prosciutto, pane, lattuga, dolci, cioccolatini, birra, spumante e il tradizionale Christmas cake, una torta di cacao, uva passita e canditi, aspettavano solo il mio arrivo per essere spazzolati. Come tutti, ho fatto un tuffo degno della migliore gara olimpica su quel tavolo pieno di cibo, tutto preparato e offerto dalla manager, prima seppellendo la fame e poi alimentando un’allegria alcolica sempre maggiore. Ho dovuto chiacchierare a lungo per annacquare quelle sensazioni artificiali prima di uscire.

Mi sono incamminato verso il paese con la testa rovesciata all’indietro per non perdere nulla delle candide porzioni di una luna grandissima che accendeva gli spazi tra le cime degli alberi illuminando ogni cosa. Stregato da quella luce così abbacinante, ho rimediato un indolenzimento al collo e tre o quattro ridicoli inciampi.

Era evidente che ero ancora un po’ brillo.

La cabina del telefono era completamente occupata dalla mole di Roberta. Ho guardato nei paraggi in cerca di Natalie. Erano, infatti, inseparabili. Non mi aveva dato molto fastidio che Natalie non si fosse svegliata quel mattino, ma quella notte, la notte di Natale, mi sarebbe piaciuto parecchio passarla con lei. Non speravo nulla di particolarmente irraggiungibile o proibito: fare due passi e guardare le stelle era la sola cosa che realmente desideravo…

All’istante ho anche immaginato di farla parlare al telefono, di lanciare insieme a lei i miei auguri a migliaia di chilometri di distanza, fino a casa mia, poi di indovinare le domande che i miei si sarebbero fatti. Nonostante la lontananza, sarei stato più vicino a loro che se fossi stato fisicamente presente. Ho sorriso infantilmente della mia fantasia, solo per rimanere ancora più deluso e amareggiato nel non trovare Natalie. Era comprensibile, ma dovevo prendermela solo con me stesso.

La notte precedente, rientrati nell’ostello perché fuori faceva freddo, mi ero spinto nel piccolo divano ad angolo invece di partecipare alla discussione che era nata tra gli altri ospiti, migliaia di frasi che nascevano da un lato del grande tavolo per morire non appena giungevano su quello opposto senza portare a nessuna conclusione.

Volevo la compagnia di Natalie, ma avevo dovuto accontentarmi di quella di un libro e della musica country che fuoriusciva gracchiando da una vecchia radio. Lentamente, le lettere si erano confuse e poi spente mentre precipitavo in un sonno pesante. Dopo otto ore mi ero svegliato, trovandomi da solo nella cucina deserta. Nello stupendo mattino di Natale, i rumori del bosco all’inizio di un nuovo giorno forti come quelli di uno stereo acceso a tutto volume, mi ci era voluto più di un momento per ricordare cosa era successo.

Dopo colazione, avevo aspettato per mezz’ora che Natalie, o una chiunque nel dormitorio femminile, si destasse. Avevo trascurato l’orario quando mi ero messo d’accordo con lei per fare l’escursione di quel giorno con l’ausilio dell’autostop, poi non avevo indugiato più di tanto. Alle otto il mattino era già caldo ed ero ansioso di scoprire quali meraviglie mi avrebbe regalato il Granpians National Park.

Eppure, durante la stupenda escursione Natalie era mimasta bene dentro i miei pensieri. Avevo un feeling particolare con lei, ma mi ero lasciato sfuggire dalle dita ogni occasione giusta. Avrei dovuto aspettarla quel mattino, come pure dopo la cena di Natale avrei dovuto pronunciare poche e semplici parole “Vieni in paese con me?” prima di uscire.

Avrei dovuto insomma fare invece di pensare di fare.

Arrabbiato con me stesso, ho salutato Roberta senza calore e mi sono messo al telefono. In luogo del segnale di linea libera, che avrebbe annunciato l’arrivo di una voce cara, un messaggio registrato ha gracchiato inopportuno e comprensibile come geroglifico egiziano. Sentivo un tale bisogno di calore, in quel momento, che quasi non vedevo altro nella mia vita. Era importante. Fino a poco prima avevo creduto che mi stavo apprestando a vivere il primo Natale lontano dagli affetti provare alcuna nostalgia. Di più, non avevo quasi mai pensato a casa. Non c’era nessun vuoto dentro di me, non ancora. Invece…

Ho fatto altri due tentativi solo per riuscire a distinguere le parole ‘linee chiuse’ e ‘riprovare’. Evidentemente c’era un sovraccarico di telefonate, la norma a Natale quando tutti vogliono fare arrivare i loro auguri a tutti, ma quando ho riprovato per la terza volta il telefono è ammutolito prima ancora di digitare il prefisso internazionale.

Ho provato e riprovato finché l’indice non ha protestato, ma niente. Il telefono aveva smesso di funzionare, e non ero affatto contento di avere finalmente trovato una italianissima pecca nella super organizzazione australiana. Non era giusto che capitasse in quel momento e proprio a me, non nel giorno di Natale e quando avvertivo un gran bisogno di udire una voce cara.

Sono uscito dalla cabina con il morale sotto le scarpe.

Roberta era ancora lì che mi aspettava. Intuita la mia frustrazione sempre maggiore non si era mossa per tutto il tempo, e tra le pieghe del suo mitragliante slang ho capito che si offriva di portarmi con la sua auto fino a un altro telefono. Ho subito acconsentito, entusiasta.

L’auto correva già da dieci minuti sulla strada tutta curve che portava verso il Mt. Victoria quando, bruscamente, il sorriso mezzo sbronzo mi si è congelato sul viso.

Conversando, scoprendo che era di Sydney e che Natalie non stava viaggiando insieme a lei, ma solo in quei giorni perché Roberta aveva l’auto, ho cercato di ricordare quale città ci fosse in quella direzione. Girando con le cartine si ha sempre un’idea, magari anche solo a livello di inconscio, dell’intera area nella quale ci si muove, e quell’area stavo cercando di riportare alla luce, concludendo ragionevolmente che in quella direzione non c’erano città, ma solo centinaia e centinaia di chilometri di bush. E nessuno mi aveva visto salire su quella macchina…

“Che intenzioni avrà Roberta?”

Questa domanda ha dileguato gli ultimi fumi dell’alcool e in un istante ho assecondato la mia attitudine nell’isolare in fretta gli aspetti salienti di un problema: Roberta era alta come me e ben oltre centoventi chili di peso; conosceva bene i posti; guidava lei. Fin qui tutto bene, poi ho esagerato.

L’ho collegata alla storia che avevo letto appena qualche giorno prima nelle vecchie carceri di Melbourne, dove negli anni ’30 era stata giustiziata una donna colpevole di avere ucciso diversi bimbi facendo scempio dei loro piccoli corpi. Le testimonianze, riportate successivamente alla sentenza che l’aveva condannata a morte, avevano rivelato che nessuno, ma proprio nessuno, credeva ancora alla colpevolezza della donna, a detta di tutti onesta e simpatica, che aveva sempre pronto una buona parola e un sorriso sulle labbra per tutti.

“Con quella faccia da angelo! Impossibile!” era l’assurda testimonianza che mi era rimasta impressa.

Il parallelo, folle soltanto in apparenza, ne usciva rafforzato mentre la rivedevo tagliare il massiccio prosciutto di Natale con un grande coltello da macellaio. Le angosce si sono sommate e il timore di essermi cacciato in un guaio mi ha reso difficile il respiro.

Più volte ho maledetto il momento in cui ero salito sulla macchina.

Il mio contributo alla conversazione si è assottigliato a monosillabi di risposta al suo monologo finché non ho abbassato il finestrino perché sentivo le guance bruciarmi. Avvertendo l’aria fresca invadere l’abitacolo Roberta, che in precedenza aveva dovuto accendere il riscaldamento elettrico dell’auto perché era effettivamente fresco, mi ha fissato in modo strano.

“Ho caldo” mi sono giustificato.

Nel chiarore, prima incantevole ma ora tremendamente spettrale, diffuso dalla luna, l’ombra di un ghigno agghiacciante è comparsa sulla sua faccia così fulmineo da farmi pensare di avere le traveggole. Non era una reazione esagerata, non avevo più il minimo dubbio. Il telefono era stata un’esca perfetta.

Pragmatico, ho cominciato ad organizzare la difesa. Ho rovistato nelle tasche e nel marsupio in cerca di un oggetto appuntito che potessi avere inconsapevolmente addosso. Non avevo nulla del genere, nemmeno una chiave. Roberta, che taceva da quando avevo abbassato il vetro, ha svoltato a destra, sulla strada che conduceva al Borooka Lookout. Lì non c’erano telefoni, ne ero certo perché c’ero passato qualche ora prima. C’era però un balcone panoramico senza protezioni dal quale avevo osservato a lungo l’ostello sperando di vedere riflessi dorati di lunghi capelli serici.

Ormai matematicamente sicuro che Roberta mi avrebbe attirato in quel punto con l’intenzione di spingermi nel vuoto, i peli si sono rizzati come se mi trovassi in presenza di un animale pericoloso e il cuore ha preso a battere tanto forte che pareva volere schizzare fuori dalle costole. Potevo invece rilassarmi. Ora che conoscevo il posto e il fine di Roberta dovevo assolutamente tranquillizzarmi, ma i tendini si sono tesi fino a dolermi prima di riuscirci, almeno in superficie.

Ho ripreso a colloquiare.

Quando le luci della macchina si sono spente, una densa tenebra pesante come un drappo nero è calata tutt’intorno. Prima di scendere, ho aspettato di abituare la vista alla luce diffusa dai pochi raggi di luna che, a fatica, oltrepassavano la coltre frondosa degli alberi. Roberta ha indicato un punto lontano, piuttosto vago, ma devo dire che non ho proprio guardato in quella direzione. Lei non si muoveva, io la fissavo senza muovermi a mia volta. Non potevo certo andare avanti io. Se aveva un’arma, un coltello?

Mio Dio, quella situazione mi stava facendo impazzire!

Per fortuna si è mossa e io mi sono prodotto in una serie di complicate, ridicole?, manovre pur di rimanerle dietro, leggermente piegato sulle ginocchia e pronto a reagire o a scappare al minimo comportamento dubbio della over-size, non necessariamente in quest’ordine. Raggiunta la balconata illuminata dalla luna, mi sono gettato a terra su una tozza pietra ormai lisciata da innumerevoli sederi, così velocemente e maldestramente che il contraccolpo è risalito lungo tutta la schiena fino a farmi sbattere i denti.

“Siediti Roberta. Può essere pericoloso se metti un piede in fallo!” l’ho costretta a fare altrettanto.

Mi sono sentito più al sicuro. Ragionevolmente, ho pensato, Roberta non poteva avere la forza sufficiente per sollevarmi di peso. Pur non avendo la sua stazza, finché rimanevo seduto i miei 182 centimetri e 82 chili di peso mi ponevano al sicuro. Mi sono rilassato un po’ e il paesaggio si è materializzato in quel preciso momento. Ovviamente era sempre stato lì ad aspettare la giusta disposizione d’animo, affinché lo cogliessi come un frutto dolce e succoso. Un grande stupore si è impossessato di me e mi ha fatto dimenticare la situazione in cui mi ero cacciato.

“Sto sognando, forse sono già morto!”

Le parole mi sono uscite di bocca, in italiano, quasi senza fare rumore. Piccoli cumuli di vapore si sono formati davanti alle mie labbra, impalpabili nuvolette che i raggi argentati della luna hanno illuminato per un istante, prima di dissolversi nell’aria fredda della notte insieme alle parole. Poi era stato solo silenzio che la luce morbida e leggera della luna sembrava coccolare sussurrando alla brezza parole di fiaba.

La vallata era abbacinante e chiara in ogni particolare: le case e le strade erano i dettagli di un negativo fotografico; le diffuse radure erbose piccoli coriandoli di un verde opalescente; le linee dei crinali e le forme bizzarre dei profili erano scolpiti nell’aria dal gioco di luci ed ombre e giustificavano appieno i loro nomignoli teneri o terrificanti; il lago era puro argento. Lontane, le luci di Stawell West e della ben più distante Ballarat, che in una notte senza luna avrebbero formato improbabili costellazioni nel mezzo dell’uniforme macchia nera del bush, risplendevano come pugni di gemme tra laghi e vallate che fosforescevano. Le parole che avevo pronunciato erano le uniche che si adattavano a quelle immagini.

Ero dentro a un sogno.

Se non fossero stati anche gli ultimi, quei lunghi secondi si sarebbero stampati nella mia memoria accanto a una paura incancellabile. Negli incubi peggiori, avverto con ogni parte del mio corpo le sensazioni terrificanti di una caduta senza fine. Le percepisco tanto intensamente finché non mi sveglio sconvolto, talvolta urlando di raccapriccio anche nella realtà. Lo sanno bene in casa mia, e per fortuna mi succede molto di rado. Il precipizio era a un metro appena dalla punta dei miei piedi. Un solo passo era sufficiente per finirci dentro.

Mi è costato un certo sforzo uscire dal sogno per rientrare nell’incubo, abbandonare l’immagine da fiaba per concentrarmi su Roberta. Mi sono accorto di avere degli spasmi incontrollabili. Tremendo… ho dovuto serrare le braccia attorno alle gambe per farli cessare. Dovevo andare via di lì, subito!

“Roberta, torniamo che ho freddo” è stata la scusa pronunciata dopo un breve periodo che mi è sembrato infinito. Dopo avere camminato un po’ di traverso e un po’ indietreggiando come già all’andata, mi sono sentito al sicuro solo dopo avere raggiunto il riparo dell’auto. Soltanto in quel momento mi solo arreso all’evidenza. Avevo frainteso tutto.

Chissà cosa avrà pensato Roberta di me, come le saranno parsi ridicoli e senza una spiegazione i miei movimenti, il mio tacere, i miei tremori. O no. Forse no. Mi sono comportato saggiamente nell’aspettarmi di tutto e non devo canzonare la mia svenevolezza. Dopotutto, l’istinto non mi ha mai dato grossi motivi per lamentarmene. Inoltre, i pensieri non sono mai così folli e ridicoli quando ci si può permettere di riderne. L’insicurezza che mi segue quando viaggio è come un mantello caldo, a volte persino troppo, ma è comunque sempre utile a ripararmi contro improvvise e impreviste folate di vento gelido.

C’è un’altra spiegazione a quello che successe, spiegazione che mi avrebbe subito arriso se al posto di Roberta ci fosse stata Natalie, ma in quei momenti avevo troppe preoccupazioni per arrivare anche solo a immaginare che Roberta potesse covare quel tipo di mire. Eppure deve essere andata proprio così: l’incanto di un momento unico, una presunta ebbrezza alcolica, il maschio latino, la speranza che anch’io avessi certe necessità… tutto dovette apparirle possibile meno che io avessi quella reazione che poi ho avuto. Diedi forse un duro colpo alla fama dei latin lovers? Tutto è possibile, ma ancora adesso non riesco a pensare che Roberta abbia fatto tutte quelle manovre per isolarsi con me.

È assurdo come un pulcino di colore blu.

Al ritorno, il telefono ha continuato a ripetere lo stesso messaggio. Ostinatamente, ho composto il numero di casa ogni dieci minuti. Non volevo aspettare il mattino per far giungere la mia voce a casa, quando il Natale sarebbe stato soltanto un ricordo e le mie parole avrebbero perso ogni valore. Volevo mantenere la promessa fatta prima di partire anche se mi fosse costato trascorrere tutta la notte nella cabina del telefono.

L’adrenalina che ancora circolava nel sangue mi ha tenuto sveglio a lungo perché soltanto a notte fonda sono riuscito a fare giungere le mie parole a chi le attendeva ansioso e, nel sentirli tutti uniti attraverso il viva voce, un groppo di nostalgia mi afferrato alla gola.

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