Storico

Centochiodi, bel film!

Sorprendente coincidenza la visione di “Centochiodi” perché si riallaccia proprio bene agli ultimi blog? Affatto, ognuno di noi vede, della vita, gli “episodi che vuole vedere”… diffidate quindi di tutti coloro che da un contesto di fatti prende solo quelli che servono a dimostrare la verità: è solo una versione delle cose, magari un accostarsi alla verità, MAI è la verità assoluta… Tanto meno se si fa questa operazione per ergersi, per convincersi e convincere di essere saggi e virtuosi, intelligenti, e mi sto riferendo ad un tipo come Roberto Giacobbo, della (pacchiana) trasmissione Voyager, che il buon Fabio Fazio ha dovuto invitare la suo “Che tempo che fa” sicuramente per ordini di scuderia. Per fortuna l’ha preso per i fondelli per bene e a più riprese, ma sempre con gusto.

La stessa evanescenza (mancanza di autocritica) di Giacobbo si evince dalla sua carriera, che pare essere premiata più da conoscenze giuste che da capacità… Forse sono cattivo, e anche prevenuto, ma come è vero che amo chi spiega e argomenta il suo punto di vista, e accetta il conseguente confronto perché è solo attraverso ua sua sintesi che ci si avvicina alla verità, è anche vero che non mi piace la presupponenza, l’autocompiacimento, sia pure camuffati da buone maniere, peggio che peggio se elargiti con un (falsissimo e fastidiosissimo) sorriso. Tornando al punto, è anche di tutto questo che parla Centochiodi, l’ultimo film (del 2007) di Ermanno Olmi. Il professorino protagonista (un ottimo e sorprendente Raz Degan) del film, se lasciamo per un attimo perdere il folle atto iniziale, ricomincia da capo, da zero e senza nulla, una nuova vita. Si immerge senza protezione nella natura italianissima e per nulla isolata o selvaggia di Bagnolo San Vito, in un casolare abbandonato e semi-diroccato lungo l’argine del medio Po nel mantovano. Si immerge senza nulla nella natura, ma anche tra gli uomini. E non muore, o stenta… no! Anzi riscopre l’essenziale dei tempi dell’alba e del tramonto, della pioggia e del sole, della carità e solidarietà, dell’amicizia, del condividere quel che sia ha, fosse solo una parola o un bicchiere di vino.

“Tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico”. Vero: il sapere tante cose non dà nessuno spessore al vivere o al vissuto se non è intimamente condiviso, come lo dà invece il sapere unito all’amicizia, all’amore, dentro e non fuori o ai margini della realtà di ogni giorno.

Ma – purtroppo per il protagonista – la bella favola (perché è di questo che fondamentalmente si tratta) non dura. Non può durare perché egli è figlio dei nostri tempi, affermazione che si traduce nella metafora della follia iniziale, che arriverà puntuale a chiedergli il conto. Viene da pensare che nel caso del professorino nulla tornerà come prima, e che nel film egli fa infine una scelta risolutiva decidendo di scendere in barca il Po, allontanandosi definitivamente dal casolare e dalla comunità in cui si era così bene insediato. Forse lo fa perché “Il fiume va lontano” a dirla come afferma la più semplice delle comparse di “Centochiodi”, o forse il professorino preferisce consapevolmente darsi la morte, invece che andare incontro a probabili nuove delusioni della vita, che è in ogni caso destinata a evolversi, se in meglio come sembra o in peggio come molti sostengono quotidianamente, è tutto da decidere.

In ogni caso, il messaggio forte del film è che nessuna vita è piena e degna senza amore per tutto ciò che vive.

Ho seguito anche il dibattito tra Umberto Galimberti, il Cardinale Tonini e lo stesso Olmi. Il filosofo ricalca, nella sua arida e sicura analisi del film, il personaggio del superiore del professorino. Non che non dica cose anche giuste, ad esempio quando dice che nessuna religione può dire sinceramente di dialogare con le altre finché non nega il dogma di essere detentrice della verità, ma solo della sua verità. Ma il buon Galimberti è offeso, e si vede, dalla forte scena iniziale del film, quella della follia, in cui il professorino inchioda decine di libri antichi al pavimento e ai tavoli di legno dell’Antica Biblioteca Universitaria di Bologna, chiodi che non per nulla sono identici a quelli che si dovettero usare con Gesù Cristo sulla croce. Il simbolico parallelismo tra conoscenza e uso che si fa della stessa e Cristo e relativi insegnamenti ci sta tutto tutto…

Il professorino confonde il buon sapere dei libri con la dittatura di pensiero, confusione che svanisce, ma questo si vede solo alla fine del film, in parole che per lui saranno chiarificatrici, e lo spingeranno infine nella natura del Po. E’ assai più sensato dire che da migliaia di libri egli non abbia imparato nulla, come in effetti è visto che non ha mai coltivato rapporti umani…

E a mio avviso sono proprio i buoni insegnamenti e il cattivo uso che si ne fa degli stessi il punto focale del film.

Voi cosa ne pensate?

Scritto 19/04/2010

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