Sarajevo, Mostar e Belgrado: veri Balcani

Sarajevo, Mostar e Belgrado: veri Balcani

Nel vicinissimo Est Europa, tra Sarajevo, Mostar e Belgrado, si trovano un sacco di spunti su cui riflettere: esiste ancora il contatto umano da noi ormai svanito, e un difficile passato molto recente a rendere il tutto più coinvolgente.

Prima di affrontare questo viaggio (nel 2010) mi sono documentato un po’ sulla storia degli ultimi 20 anni della ex Jugoslavia. E’ servito per rinfrescarmi la memoria, per prepararmi a incontrare una popolazione fiera, esageratamente nazionalista e passionale, un mix che ha causato un lungo conflitto civile e atroci pulizie etniche.

Scendo verso Sarajevo lungo strade che sembrano uscire direttamente dagli anni ’70. Molti sono i panorami mozzafiato mentre verso Banja Luka e poi Jajce, dove nel 1943 iniziò la marcia di Tito che alla fine riunì tutte queste terre balcaniche che due millenni di storie avevano reso diversissime l’una dall’altra, unione che si sarebbe disintegrata a Sarajevo circa 50 anni dopo, negli anni ‘90

Sarajevo fu assediata e martoriata a lungo dalle truppe serbe appostate sulle colline circostanti. I segni dei proiettili deturpano ancora qualche edificio, ma oggi culture e tradizioni han ripreso a mischiarsi ovunque, dalle donne coperte di nero dai capelli alle scarpe che camminano accanto a ragazze in minigonna, da campanili, minareti e sinagoghe che chiamano i fedeli alla preghiera a pochi metri di distanza l’uno dall’altro. Ma le notizie di oggi suggeriscono che il processo di pacificazione è ancora lontano da completarsi.

Da vedere la Biblioteca Nazionale, sintesi fra lo stile ottomano e mitteleuropeo: davanti al suo rinnovato splendore è difficile immaginarla distrutta dai bombardamenti. Vale la pena una visita alla moschea di Ali Pasina o all’inconfondibile hotel Holiday-Inn, da cui gli inviati di tutte le emittenti mondiali trasmettevano quotidianamente le immagini del più lungo assedio dei tempi moderni, durante il quale persero la vita circa 12.000 abitanti di Sarajevo,  ed oltre 50.000 rimasero gravemente feriti.

Sicuramente toccante il ponte Vrbanja, dove due giovani ragazze, centrate da cecchini serbi nell’aprile del ’92, furono le prime vittime dell’assedio. Per lo stesso motivo ho avvertito forti brividi nel camminare lungo il viale Zmaja od Bosne, ancora oggi chiamato “viale dei cecchini” in quanto i tiratori serbi tenevano quotidianamente sotto tiro i civili inermi.

Doverosa l’istruttiva visita al Tunnel for life, una decina di km a sud di Sarajevo. I 700 m di tunnel sotto l’aeroporto, che allora garantirono la sopravvivenza della città finché non ottenne l’indipendenza, ospitano oggi il museo dell’assedio: video e fotografie rendono l’idea della drammaticità della vita fra il 1992 e il 1995.

Mostar mostra visibili segni della guerra in periferia, ma è famosa per il ponte Stari Most (Sito Unesco), distrutto durante la guerra e subito ricostruito. Numerosi minareti lo contornano lungo le rive del Narenta e il posto, davvero bello, ma incredibilmente affollato di turisti, è assai godibile solo nelle prime come nelle ultime ore del giorno.

Con tutta la giornata davanti, decido di vedere le cascate di Kravitce, splendide in un contesto incontaminato. Di qui, seguendo strade secondarie, faccio incetta di panorami suggestivi, ma soprattutto di incontri bar dopo bar, birra dopo birra.

La gente è davvero calda e accogliente, e anche se l’inglese è poco parlato la comunicazione è lo stesso efficace: non per nulla siamo tutti latini. E che cibo!

Oltre ai buonissimi ed onnipresenti burek (involtini di pasta sfoglia con ripieno di patate, funghi, verdure varie) e cevapcici (piccole salcicce di carne accompagnate da varie salse di formaggio e verdure) e la carne più fantastica che abbia mai mangiato e che mai mangerò in vita mia, rimane per me un ricordo indelebile la krempita, strati di pasta sfoglia alternati a strati di crema alla vaniglia, una mortale bomba calorica più che un dessert!

Nel tragitto da Mostar a Belgrado ho trascorso tre giorni letteralmente fuori dal mondo lungo il confine tra Bosnia e Serbia dove si vive ancora col necessario ed esistono rapporti umani da noi ormai dimenticati travolti come siamo dalla ricerca di un eccesso di benessere, ma soprattutto si dà alla parola Libertà il vero significato per il quale milioni di persone hanno perso ovunque, e in ogni tempo, la vita.

Belgrado, capitale della ex Jugoslavia, “città bianca” nel lessico locale, anche se di bianco non ha più nulla, è una città dagli enormi palazzoni di cemento di stampo socialista. Prima sensazione: quel che si avverte parlando con la gente comune è che il mito della grande Serbia è qui ancora vivissimo, un sentimento ben diverso da quello – diffuso ovunque – di nostalgia di quando la Jugoslavia era un unico paese sotto la ferra disciplina comunista imposta da Tito, e la vita organizzata dallo Stato era assai meno problematica di oggi. Forse i palazzi del Governo, lasciati ancora distrutti come monito e prova della reazione dell’Occidente a pratiche assolutiste, stanno ottenendo l’effetto esattamente contrario…

Detto questo, per essere una capitale a Belgrado offre poco da vedere. Meglio trascorrere le ore lungo la Knez Mihailova, via più importante della città brulicante di caffè affollati in tutte le stagioni, impreziosita da eleganti edifici Art Nuveau. Dal parco di Kalemegdan, uno dei più belli in Europa, si gode un panorama eccezionale sulla Sava che si immette nel grande Danubio.

Dopo due giorni a Belgrado, è già ora di tornare. Risalgo la Vojvodina e la grande pianura pannonica coltivata a ortaggi e alberi da frutta. Ultima tappa è Novi Sad, città universitaria zeppa di giovani e locali all’aperto. Qui la guerra non sembra essere arrivata mentre cammino tra begli edifici e attraverso il Danubio, che in questo tratto è davvero blu, fino a raggiungere la fortezza di Petrovaradin. Il premio finale è una vista magnifica verso sud e tutta la strada che ho percorso.

Per un attimo, ma solo per un attimo, penso a quanto sarebbe stato bello se quel panorama fosse sempre così, poi mi ripassano davanti agli occhi le immagini viste a Sarajevo e allora mi prende una gran tristezza: è davvero difficile confidare negli uomini.

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