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Città del Messico: qualcosa di grande…

Pochi passi bastano per sfatare il mito della siesta, del sombrero e del poncho, ma De Efe, Districto Federal, o El Monstruo come Città del Messico è conosciuta dai 25 e passa milioni e passa di abitanti, è un mostro dall’anima messicana quindi capace di conquistarti quando meno te l’aspetti.

Città del Messico appare sterminata mentre l’aero la sorvola per almeno 10 minuti prima di atterrare, un gigantismo che mi schiaccia non appena metto piede in città. Non è una sensazione esclusiva: molti si muovono in gruppo o con l’intera famiglia – dai nonni ai nipotini – quasi a difendersi contro il caos, il rumore continuo e pesante delle auto, il grigiore del sole che si fa strada a fatica, spento e rotondo, nella mata, lo smog, da molto tempo oltre la soglia di massimo pericolo.

Eppure, mentre chiacchiero con i conducenti degli economici taxi, per la maggior parte folcloristici maggioloni Volkswagen di colore verde, o mi muovo a contatto con la gente utilizzando l’estesa e moderna metropolitana, ma soprattutto mentre giro a caso per i quartieri, la città più grande del mondo è stata capace di sorprendenti dolcezze…

Su Plaza de la Constitución, comunemente Zócalo, si affacciano i muri del Palacio National che Diego Rivera ha impiegato quarant’anni ad affrescare, spesso vivendo sui ponteggi per lunghi periodi.

Percorrere il murale è come attraversare la storia della città, e del Messico, dalla fondazione ai conquistadores, dal rovinoso impatto dei gesuiti alla rivoluzione messicana.

L’adiacente Cattedrale, costruita sull’antico tempio Atzeco dello Tzompantli, dove venivano esposti i teschi dei guerrieri nemici uccisi, ospita il notevole Altar de los Reyes del 1700, interamente realizzato con foglie d’oro, ma oggi assai più famoso per un altro motivo. Più accentuato che altrove, qui il bradismo, fenomeno causato dal fatto che DF è interamente edificata su un lago, fa pendere vistosamente muri e pavimenti da più lati contemporaneamente, creando un edificio surreale.

Ma è proprio la piazza, costantemente animata a dispetto della sua notevole estensione, la vera attrazione: all’alba squillano le trombe della Guardia Nazionale che issa l’immensa bandiera del Messico, poi ammainata a sera con una scenografica cerimonia; durante il giorno ci sono una marea di turisti, venditori ambulanti, lustrascarpe, bancarelle dove è possibile appoggiare la causa degli Indios del Chiapas e migliaia di persone che cercano lavoro esponendo un cartello con quello che sanno fare; la sera, giovani in spettacolari costumi aztechi di piume colorate si esibiscono in antiche danze e rituali magici al suono di canti e tamburi.

Vicino si trovano l’Alameda e il Palazzo delle Belle Arti, un centro polivalente con un ricco programma culturale.

La Fonda del Recuerdo, in Bahìa de las Palmas 39, un buon ristorante di pesce con l’atmosfera “machista” ma non troppo, cosicché possono tranquillamente fermarsi anche le signore, è un’ottima scelta per una pausa prima di spostarsi in Piazza Garibaldi per ascoltare e vedere gruppi di mariachis, musicisti originari dello Stato di Jalisco in elegante costume nero bordato d’argento, detto charro.

Essi intonano su commissione le più belle canzoni messicane accompagnandosi con violini, chitarre e trombe. Facile assistere ad una qualche richiesta di fidanzamento, con tanto d’anello, di un ragazzo alla sua bella.

A Chapultepec, “la collina delle cavallette” in nàhuatl, la lingua indigena, e polmone verde di DF, si trovano laghetti, piante secolari, un grande parco di divertimenti, la residenza ufficiale del Presidente del Messico, ma soprattutto lo spettacolare Museo Nazionale Antropologico, tappa obbligata prima di avvicinarsi ad un qualsiasi sito archeologico del Messico.

L’avvicendarsi e l’intrecciarsi delle varie civiltà precolombiane è ben documentato da numerosissimi reperti, a partire dalla celebre Piedra del Sol, una pietra circolare di 3,60 metri di diametro e del peso di 24 tonnellate, utilizzata per il computo del tempo.

A mezzogiorno, davanti al museo va in scena l’antico rito azteco della fertilità: cinque voladores, dopo essere saliti in cima a un palo alto 20 metri, si buttano nel vuoto legati per i piedi ad una fune precedentemente avvolta attorno all’asta, e roteando lentamente volteggiano fino a terra suonando i loro flauti.

Salendo a nord, si attraversa un’enorme baraccopoli, la ciudad perdida in cui finiscono tutti i messicani e i clandestini attirati dal miraggio di un lavoro nella capitale, una vista che mette tristezza prima di avventurarsi nella Storia nell’antica città tolteca di Teotihuacàn.

Nessuna guida può descriverla compiutamente: gli spazi e le geometrie sono irreali, risaltati dal silenzio assoluto se si entra prima delle 10 del mattino.

Schivando venditori di souvenir o d’oggetti d’ossidiana, percorrete lentamente la Calzada de los Muertos (Viale dei Morti) in direzione della piramide della Luna, poi scalate la piramide del Sole, coi suoi 64 metri la terza più alta al mondo e, una volta in cima ai 248 scalini, resi più alti dell’aria più rarefatta dei 2200 metri d’altezza dell’altopiano su cui si trova tutta DF, moltiplicate tutto quello che vedete e avete fatto per dieci.

Avrete così un’idea di come Tenochtitlán apparve a Cortés, una meraviglia ancora più grande perché creata senza conoscere il ferro e la ruota. Tra le altre costruzioni, merita una menzione il Tempio di Quetzalcoatl, che apprezzerete molto di più se avrete già visto, al Museo, la riproduzione a colori di come era in origine.

Tornato in città, a Xochimilco, “posto in cui crescono i fiori”, è ancora possibile vedere ciò che resta degli antichi canali che un tempo attraversavano la capitale Mexica. Facilmente si finisce per salire su una delle trajineras, tipiche imbarcazioni dal fondo piatto, per vivere uno spaccato autentico di vita quotidiana tra famiglie che si divertono, scherzano e cantano attorno a tavolate piene di cibo e bevande, e barche che invece fungono da cucine o bancarelle ambulanti.

L’ambiente è ben diverso da Coyoacan, “luogo dove vivono i coyotes”, situato poco meno di una decina di chilometri a sud del centro, oasi di pace e tranquillità e rifugio dorato dei ricchi, dove case in puro stile coloniale messicano, piene di fiori e di rampicanti, si alternano a coreografiche piazzette.

I tianguis, mercati stabili, stagionali o improvvisati dove è possibile trovare davvero di tutto, offrono quasi ad ogni angolo della città scene di vita, colori e dialoghi da atmosfera paesana grazie ai venditori che giungono da paesi o regioni circostanti con le loro merci, perpetuando una tradizione antica secoli.

Normalmente considerata città da toccata e fuga perché pericolosa oppure poco interessante relativamente a tutto quello che il Messico può offrire, se si dispone di più tempo e non ci si lascia intimorire DF è capace di sorprendere con le cantinas, locali rigorosamente vietati alle donne, dove ancora impera il machismo tutt’oggi profondamente radicato nella mentalità dei chilangos, come nell’improvvisa vista senza pari dei vicini vulcani Popocatépetl (tuttora attivo) e Citlaltépetl, con i loro 5452 e 5700 metri vere sentinelle ai lati della città, in uno dei rarissimi giorni senza smog.

Una breve nota di storia

Spinti da una profezia, i mexica partirono da Aztlàn in cerca della terra loro promessa da Huitzilopochtli, divinità solare. Dopo molte peripezie, giunti sul lago Texcoco videro finalmente l’aquila appollaiata su un cactus, intenta a divorare un serpente (immagine oggi al centro della bandiera nazionale), e lì decisero di costruire la loro città, Tenochtitlán, a dispetto del fatto che si trovasse su un’isola nel lago.

In principio i mexica vissero sottomessi ai vicini toltechi di Teotihuacàn, allora al massimo splendore. L’etimologia della parola è incerta, ma sembra che mexica fosse il nome di un’alga, di cui i nuovi arrivati si nutrivano, che cresceva nel lago Texcoco. Il nome fu in principio usato in senso dispregiativo dai potenti toltechi, a mo’ di mangiarape, ma fu poi orgogliosamente esibito dai mexica che seppero innovarsi ed evolversi tanto bene da conquistare e sottomettere prima la stessa Teotihuacàn e le città azteche attorno al lago e poi tutte le civiltà precolombiane dell’intero Messico. Tenochtitlán si allargò agli isolotti vicini, collegati con ponti, e infine, col passare dei secoli, fin quasi sulla terraferma, cui fu unita da una maestosa strada.

Quando nel 1519 gli spagnoli si affacciarono su Tenochtitlán dall’alto di una delle colline che la circondano, si trovarono davanti ad una sorta di Venezia con quattrocentomila abitanti, qualcosa di assolutamente impensabile in Europa.

I mexica potevano annientare facilmente i conquistadores, ma l’allora re azteco Montezuma accolse Cortés come una divinità traviando la stessa profezia iniziale, che preannunciava la venuta del dio supremo, Quetzalcóatl, nelle sembianze di un uomo di pelle chiara, proveniente da est. Le oscure parole che diedero l’immortalità ai mexica ne segnarono quindi anche la fine.

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