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RECENSIONE Shantaram, di Gregory David Roberts

Autore: Gregory David Roberts. Editore: Neri Pozza. Anno edizione: 2009. Pagine: 1177. Genere: Narrativa, Romanzo

Nemmeno dopo la fuga dalla prigione avevo una chiara consapevolezza delle cause e delle conseguenze che stavano determinando il nuovo e amaro corso della mia vita. Invece la prima notte in quel villaggio in India – cullato dal mormorio delle voci, gli occhi pieni di stelle – quando il padre di un altro uomo mi posò una ruvida e callosa mano da contadino su una spalla, compresi ciò che avevo fatto e ciò che ero diventato, fui consapevole della pena e dello spreco, lo stupido, imperdonabile spreco della mia vita. Mi si spezzò il cuore per la vergogna e il dolore. Seppi quanta sofferenza era in me e quanto poco amore. Alla fine seppi quanto ero solo.

FA INNAMORARE DELL’INDIA, MA….

Questo mattone di autobiografia romanzata mi ha subito attratto per l’incipit dell’autore, condannato giovanissimo a 19 anni di prigione di massima sicurezza per una serie di rapine a mano armata, da cui riesce ad evadere, e, dopo una lunga serie di vagabondaggi senza documenti, finisce in India, a Bombay. Il romanzo inizia di qui.

Fin da subito l’autore/protagonista rimane affascinato dalla variegata umanità della città e ce la racconta come l’ha vissuta, senza filtri nel bene come nel male, toccando spesso il cuore di chi legge, in particolare me perché in quel paese avevo già programmato di viaggiare per due mesi prima che si mettesse di mezzo un amore imprevisto che ormai non aspettavo più.

Questa parte mi è piaciuta molto: sembra di essere costantemente lì, col protagonista. Il suo primo incontro indiano è Prabaker, che poi lo accompagnerà personalmente nella sua full immersion nella cultura e vita indiana. Diventeranno grandissimi amici in un rapporto alla pari, tanto che ne riceverà Lin(baba) come soprannome, non esattamente un complimento in lingua locale in quanto troncamento di lingham (pene).

Per sbarcare il lunario e proteggersi in quanto latitante, Lin finisce per stringere rapporti con la malavita, ma un nuovo rovescio della vita lo porterà a cercare rifugio nella miseria dello slum, la baraccopoli indiana dove finiscono gli ultimo tra gli ultimi, ma vi si adatterà alla grande finendo per organizzare un primo soccorso gratuito per mendicanti e indigenti.

Stupende le pagine in cui Lin racconta le sue nuove amicizie, struggenti quelle in cui si sente indegno dell’amore che riceve in quanto non rivela mai a nessuno il suo passato oscuro. Vorrebbe cancellare con la sincerità questa macchia, eppure lo teme perché non sopravvivere ad un rigetto. Lin tocca il punto più alto della prosa quando, alla fine di un lungo soggiorno nel villaggio di agricoltori di origine di Prabaker, rifiuta la famiglia indiana che vorrebbe adottarlo, periodo che gli era valso il nome di Shantaram, “uomo della pace di Dio”. Non può accettare perché si sente irrimediabilmente “sporco”.

Anche in amore va più o meno così, con l’aggravante che l’anima gemella Karla ha un passato oscuro. La fine di questo amore unita alla morte violenta e improvvisa dei suoi due migliori amici, veri fratelli acquisiti, lo demolirà nella mente e nel fisico, sprofondandolo in un nuovo abisso.

La seconda metà di Shantaram mi è piaciuta poco perché, passando per una nuova e durissima incarcerazione, narra sì la nuova rinascita di Lin, ma anche la sua consapevole deriva nella malavita, costantemente a stretto contatto – anche emotivo, perché lo vedrà come il padre lontano ormai perduto – col boss dei boss della mafie di Bombay, per finire a combattere insieme ai mujaheddin contro i russi sulle montagne dell’Afghanistan, e tornare indietro come uno dei pochissimi superstiti.

Le ultime pagine di Shantaram sono poesia… ma senza un vero finale questa lunga storia di numerose cadute disastrose e rinascite attraverso continue riflessioni sull’esistenza sua e dell’umanità intera, non mi ha lasciato proprio nessuna voglia di leggere il seguito. Anche se comprendo la voluta fedeltà dell’autore alla sua incredibile autobiografia, tuttavia alla fine diventa tutto troppo pesante, troppo ripetitivo, troppo crudo e anche – scusate – uno spreco tremendo e inutile che un uomo non riesca a imparare niente da tutti i fortunati incontri, nel contesto di grande positività in cui la “nuova” vita di Lin si stava sviluppando.

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