Viaggiare…

Il Tibet, oggi… Prima parte

Il mio viaggio in quello che è il Tibet oggi (Everest scluso)…

Da tempo desideravo visitare l’altro versante himalayano, desiderio raffreddato dalla mia avversione al totalitarismo che da decenni affligge il Tibet. Confidavo molto sulle ultime Olimpiadi Cinesi (2008), ma la sovraesposizione mediatica del problema tibetano, e quella struggente e coloratissima bandiera con la scritta “Tibet Libero” onnipresente su ogni campo di gara, sembra non avere portato nessun cambiamento, purtroppo. Così, complice una ottima offerta, ed anche bellissime letture, mi son deciso di andare a vedere coi miei occhi cos’è il Tibet oggi.

Fin dalla preparazione è stato un viaggio diverso: avendo a disposizione solo due settimane, ho subito deciso di rinunciare al solito fai-da-te appoggiandomi ad operatori locali. Arrivato a Lhasa, mi ci fermo giusto il tempo per trovare pulmino che mi porterà verso la prima meta del viaggio: il campo base del Monte Everest.

E’ una strada lunga, e a tratti insopportabile, arrivarci. Il pulmino lascia un po’ a desiderare ma cammina, e lo spettacolo che si rivela sullo sfondo ripaga da solo di ogni scomodità. La limpidezza dell’aria fa sì che i monti più altri del pianeta, e l’Everest, sembrino davvero dietro la prossima svolta. I chilometri sono scanditi dall’apparizione di villaggi tibetani: nessun cartello ne indica il nome, e sembrano tutti uguali nelle loro case di fango e mattoni addossate le une alle altre.

Qui la vita è ancora dura: raccogliere la legna e prendere l’acqua per i fabbisogni quotidiani sono azioni manuali e quotidiane, ma nessuno di coloro che incontriamo manca mai di fermarsi per offrire una tazza di forte tè al burro di yak, super energetico ma difficile da bere, o per accoglierti con un sorriso disarmante. Ci si sorprende ad attraversare un’area deserta sabbiosa, con alte dune, dopo Sakya. Nei frammezzi, ampi spazi candidi. Non è neve e nemmeno sale, ma sapone.

Il primo monastero famoso lo incontriamo a Gyantse: si tratta del Pelkor Chode. Impossibile non rimanere colpiti dalla sua struttura a più piani sormontata da una grande cupola d’oro. I pellegrini compiono in senso orario la ripida spirale che porta in cima, cercando nel frattempo di assorbire spiritualità e conoscenza divine. Non è il mio caso, ma da lassù si gode un superbo panorama sull’altopiano.

A Shigatse, capitale storica della regione dello Tsang, visitiamo il monastero di Tashilhunpo, il secondo per importanza dopo il Potala. Il monastero è una cittadella fortificata attorno a poderosi edifici che sembrano arrampicarsi letteralmente l’uno sull’altro fino alle costruzioni color ocra, dai tetti dorati, che ospitano le cappelle e le tombe dei Panchen Lama del passato. Anche qui la solita folla di pellegrini che pregano ininterrottamente, camminando in senso orario, in mano il rosario tibetano, ad ogni grano una preghiera.

Ci sono anche tanti monaci, ma solo nel successivo monastero di Shalu ci viene permesso di assistere alle loro preghiere: tutti perfettamente allineati, seduti nella posizione del loto, intonano ripetutamente i loro mantra che inondano ipnotici. E, quasi una scena da film ben preparata, si realizza la più classica delle aspettative. Davvero suggestivo. Più complicato è invece capire qualcosa di più del buddismo tibetano vero e proprio: mescolandosi nel tempo a elementi hindu, risulta piuttosto complicato capirne un po’ pur nelle sue numerose rappresentazioni. E’ molto più chiaro ciò che Rivoluzione Culturale ha imposto e impone a tutti: il timore dei monaci tibetani si nota bene nel loro guardarsi continuamente intorno mentre provano a spiegare le cose della loro religione.

Infine arriviamo a Shegar, punto di partenza per Rombug e il campo base dell’Everest. Da Romburg, a 5200 mt., si vede buona parte della catena Himalayana, con l’imponente Everest avvolto da nuvole temporalesche. Fa freddo e, dopo avere trascorso giorni a 4000 metri, l’improvviso sbalzo di quota dà nausea e spossatezza. Niente mal di testa, per fortuna. Nella successiva alba che il luogo ci rapisce: non c’è una nuvola e mentre i raggi solari attraversano sempre più numerosi il cielo, la luce pare dipingere i mitici monti di tutti i colori caldi dell’arcobaleno, dall’azzurro melangiato al rosa pallido, dall’arancione al rosso, tutti esaltati dal bianco dominante delle cime perennemente innevate. Nel silenzio più assoluto, che nessuno ha voglia di infrangere, per un istante ti senti padrone di tutto.

La mia mente torna automaticamente a quando vidi per la prima volta quel monte a bordo del mio volo verso l’Australia, parole che sono su Australiando, ma non è che un attimo: c’è la più alta delle cime del pianeta che mi aspetta…

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