Viaggiare…

I “teneriffiani”: Tenerife a sorpresa!

La bellissima Tenerife delle isole Canarie è il (brutto) esempio di quel che succede laddove il turismo finisce in mano ai Big del settore turistico.

Arrivato a Los Cristianos approfittando di un volo charter a 50 mila misere lirette, e una sola ora di viaggio da Lanzarote in luogo delle ben 36 richieste dalla nave, che di lire ne avrebbe volute addirittura 60 mila (posto ponte), ero intimamente ed estremamente felice.

Due i motivi che non avevano minimamente a che fare col viaggio, con nessuna delle normali motivazioni di confronto, scoperta, curiosità: avrei finalmente giocato a beach-volley. Più persone incrociate nei due mesi precedenti mi avevano parlato del posto, confermando le informazioni già ricevute a casa, prima della partenza, da un compagno di giochi, regolare frequentatore di Los Cristianos. Ma avevo anche un altro tipo di curiosità: dopo quasi due mesi di full immersion tra nordici inglesi e tedeschi, generalmente sui 55-65 anni, e la poca presenza di ragazze indigene (per loro l’inverno è sempre inverno anche se la minima non va mai sotto i 18-20 gradi), speravo di trovare a Tenerife – benissimo servita dagli aeroporti italiani – un po’ di movida e… gioventù.

“Dove vuoi che vadano tante femmine se non a Los Cristianos o Las Americas?” mi dicevo…

In aeroporto ho preso al volo l’autobus che arrivava in città. Se nelle altre isole Canarie guidano come pazzi, su Tenerife volano come pazzi… Poco male, se non che la delusione è arrivata subito come una doccia ghiacciata sotto forma di enormi difficoltà di trovare una accomodation a prezzi non di rapina. Alla fine mi sono pure ritenuto molto fortunato nell’avere trovato un misero studio (monocale con angolo cottura) a 100 mila lire a notte. Vabbè, domani andrà meglio. Seee…

Los Cristianos è – naturalisticamente parlando – bruttissima. A febbraio è affollata di nordici della terza età se non quarta e l’unico beach-volley l’ho visto unicamente dalle ore 17.30 alle 18.30 (con rete montata al momento, fai-da-te), poi se ne sono andati. L’argomento locali notturni e movida non è nemmeno da sfiorare: Las Americas ha decine e decine di residence villaggi da 1000 camere e passa, dalle architetture che svariano dal modello “alta pasticceria” allo “spaziale”, con piscine che paiono laghi, giardini grandi come campi da golf di 18 buche e, ovviamente, abbondante animazione diurna e serale. A Los Cristianos il rapporto approssimativo col viaggiatore o turista, già deficitario sulle altre isole Canarie, si eleva a picchi da Guiness dei primati. Un disastro!

Pensavo di rimanere su Tenerife settimana, l’ultima del lungo viaggio prima del ritorno a casa, poi l’ho ridotta a quattro giorni e infine a due e mezzo, tanto Tenerife (la porzione di abitanti con cui sono venuto in contatto) mi ha esasperato, da cui il titolo dell’articolo.

E non mi riferisco tanto ai gestori degli Internet Point, che pure mi sarebbero stati tanto necessari per il mio lavoro, ma nell’ordine a: ristoranti chiusi alle 21.30, 22.00; operatori turistici che, tutti ma proprio tutti, manco ti prendono in considerazione se non discuti il servizio in termini di prestazione settimanale (in soldoni, ogni giorno dovevo attendere ogni mattino, anzi ogni sera, che non avessero trovato nessun affittuario per più di tre giorni, poi due, poi uno, il massimo che avrei potuto sopportare a Los Cristianos; un generale e totale menefreghismo persino negli uffici di turismo.

Subito stufo della pochezza offerta da Los Cristrianos più Las Americas (dopo quel po’ po’ di spiagge calpestate in giro per le isole Canarie, quelle misere e affollate baiette artificiali, dall’acqua torbida, non dicevano nulla), e trovata per un chiaro colpo di fortuna la piccola auto a noleggio alle 9.30 del mattino (prima, potete bene immaginare da soli, non me l’avrebbero mai data…) ho  caricato il mio zaino in auto e sono partito per vedere se Tenerife aveva altro da offrire. Quella che segue è la cronaca di 14, intensissime ore di viaggio, curve e controcurve, strade e scoperte fantastiche, ma senza lieto fine.

Tenerife, “innevata” in lingua guancia, è la più grande delle isole Canarie. Me ne sono accorto subito. Lasciata alle spalle Los Cristianos lottando col coltello tra i denti per difendere il piccolo spazio occupato dalla “mia” piccola Ford Ka da quei pescecani di “teneriffiani” al volante, e presa appena possibile una strada più interna, ho iniziato lentamente a risalire la costa occidentale di Tenerife. Checché se ne dica, non è affatto pittoresca, almeno non finché si raggiunge l’Alcancantilados de Los Gigantes, lungo nome di uno spettacolare strapiombo nero nero sull’Atlantico, e del consistente lido turistico sorto letteralmente ai suoi piedi.

La strada per arrivarci non è affatto spettacolare, dicevo, a meno che non amiate piantagioni di banani e il traffico, non necessariamente in quest’ordine. Fantastica è invece – finalmente!!! – la strada tutta curve che da Santiago del Teide porta verso Icod de los Vinos attraverso la deliziosa Masca.

Si tratta di strade belle, tortuose e poco o per nulla affollate. Nel vedere quelle montagne e strette vallate, quei piccoli (ridenti?) paesini, ho subito indovinato che l’isola si presta molto bene ad una vacanza simil-montana, impressione poi nettamente confermata nel pomeriggio. Arrivando a Masca si ha proprio l’impressione di arrivare a Macchu Picchu, sebbene non ci sia mai stato e si rimanga notevolmente più in basso, a solo 1800 miseri metrucci s.l.m.

Ritornato sulla costa, nulla da segnalare se non l’acquisto di due chili di banane a poco più di mille lire, finché dopo una sessantina di chilometri non fallisco il bivio a sinistra per il Pico del Teide e finisco dritto nella bolgia trafficata della capitale Santa Cruz.

Alcuni duelli all’ultimo sangue si sono susseguiti finché con un colpo di reni non sono riuscito a portare la Ka fuori dalla rissa. Avete letto bene: rissa, non ressa.

Impossibile sbagliare direzione perché il Pico del Teide – con i suoi quasi 3750 metri la più alta delle cime spagnole – con la sua cime perennemente ricoperta di neve è perfettamente visibile da ogni punto dell’isola, come lo era da Gran Canaria praticamente in ogni condizione di tempo sereno. Col punto cospicuo ben davanti al muso dell’auto, inizio la salita verso La Esperanza, mille metri di dislivello in meno di otto chilometri. Non male!

Raggiungo la linea del bosco e lo trovo sorprendente: pini, larici ed abeti sono molto alti, più vicini alle misure canadesi che non agli standard mediterranei. All’istante smarrisco la sensazione che da due mesi viaggio, abito, dormo e mangio vicino al Tropico. Mi fermo per un veloce pic-nic: ho solo acqua e banane, ma hanno un bel sapore con la vista da 1200 metri sulla capitale e sulla punta settentrionale dell’isola.

Riparto giusto in tempo per accodarmi ad asfittico e un mefitico torpedone turistico che per cinque chilometri si rifiuterà di dare strada. Invento nuove e veramente fantasiose imprecazioni come “teneriffiano” che fa molta rima con villano finché non riesco a superarlo mettendo due ruote fuori dalla carreggiata. La strada si fa meno tortuosa nel risalire un lungo crinale naturale del monte e nemmeno ci si rende conto di continuare a salire fino a duemila metri e poi ben oltre.

Di tanto in tanto, il Pico del Teide fa capolino tra gli alberi e regala viste sublimi da godere in tutta tranquillità dall’auto in movimento. È il preludio a quel che si presenta quando esco dalla vegetazione, poco prima di un osservatorio astronomico.

La sensazione di essere sul balcone delle Isole Canarie è netta e viene naturale un piccolo gesto di stizza nell’avere scelto per l’escursione un giorno di forte foschia.

Ancora pochi chilometri di pendii tutto sommato dolci anche se strapiombano per 2000 metri, perdendosi tra le nuvole, pendii di colori spesso diversi che comprendono tutte le gradazioni del nero, del rosso e del giallo, ed entro nel parco nazionale de Las Canadas, ex cratere vulcanico di 75 chilometri di perimetro che circonda il Teide a est alla quota di 2000 metri.

La stessa vetta del Teide è un cratere, ma dal basso non si nota.

L’ultima eruzione, datata 1704, ha creato un paesaggio incredibile. Ci sarebbe proprio da godere di un paio di giorni di trekking lunari o marziani che sembrano svilupparsi relativamente in piano. Mi accontento di ammirare quei colori e quelle formazioni fantasmagoriche prima dall’auto e poi in un breve tour a piedi che mi ha ricordato tantissimo Uluru, alias Ayers Rock, alias il Red Centre australiano, alias l’Outback.

Quelle bizzarre formazioni rocciose e colori non appartengono a questo mondo e rimango continuamente a bocca aperta.

A piedi è possibile anche compiere l’intera ascensione fino ai 3700 e rotti metri della cima. Si può salire e scendere in giornata, così dice il cartello al Centro Visitatori, ma subito consiglia – e io sono d’accordo – di pernottare al rifugio per godersi sia il tramonto che l’alba.

“Non si tratta solo del levarsi del sole”, dice la guida. “È come assistere ad una vera aurora del mondo. Gran Canaria, poi Palma, Hierro, Gomera… una dopo l’altra le isole Canarie escono dalla morte della notte e si illuminano ai vostri piedi, ed alla luce sempre più forte si ha come l’impressione di essere sul limite della terra nell’indovinare più che vedere i contorni di Fuerteventura, La Graciosa, Lanzarote (e ancora più lontano la massa più chiara del Sahara aggiungo io).”

Più affascinante, e anche selvaggio, è l’itinerario – sconsigliato a chi non sopporta le strade di montagna, perché queste sono ripide e tortuose oltre che spettacolari – che ho seguito a nord dalla città di La Laguna per aggiungere il villaggio di Taganana nel nord ovest dell’isola. Dapprima si sale alla zona di La Mercedes, un angolo di paesaggio fluviale verdissimo, un mirador su cui ci si stropiccia gli occhi perché inaspettato, poi si attraversa una lunga selva buia che sbuca ai piedi di El Balaidero, che da lontano appare come una piccola macchia verde, un cespuglietto sul punto più alto del massiccio.

Per arrivarci, la strada – bella e ben tenuta, praticamente solitaria – incide le montagne come una serpe con le contorsioni e regala panorami mozzafiato oltre a palpitazioni. Siccome non sembrava abbastanza, di mio ho aggiunto l’auto quasi in riserva di benzina.

Da El Bailadero, scendo verso Taganaga convinto di trovare il prezioso idrocarburo. Giungo ad un paese di pescatori incastrato tra due scogliere, bene in altezza sul mare, sino a pochi anni prima raggiungibile solo a piedi, a dorso di mulo o in barca.

La caratteristica del villaggio, che purtroppo non ho potuto verificare personalmente perché di benzina nada e non avevo nessuna intenzione di farmi sorprendere dalla notte in mezzo alle montagne, è che i suoi abitanti sono tutti biondissimi e con gli occhi azzurri. Probabilmente discendono da un qualche popolo nordico di navigatori che un bel giorno vi si installò proveniente dal mare, vivendo in un isolamento praticamente assoluto fino al secolo scorso.

Ho quindi risalito tutto l’impervio crinale fino al El Bailadero per discendere quasi in picchiata quello opposto “atterrando” nel villaggio di pescatori di San Andrès e la Playa di Las Teresitas – famosa perché grande e con le palme, ma è una spiaggia artificiale realizzata con sabbia importata dal Sahara – a circa 8/10 chilometri da Santa Cruz. Anche qui benzina nada. In riserva da urlo e acceleratore al minimo, arrivato a Santa Cruz ho tirato un sospiro di sollievo.

In cerca di una camera, e ricevuta con un paio di domande bene formulate la preziosa “dritta” che in una tale casa Carmìta – in realtà qui non identificano una casa non col nome di una via e un numero, ma col nome del capofamiglia che la abita – c’era un privato che affittava una serie di appartamenti, e poi dalla stessa Carmita la conferma che nemmeno in quell’angolo fuori dal mondo i prezzi erano inferiori e la gente gentile, ho abbandonato una qualsiasi ipotetica e a quel punto folle idea di rimanere ancora su Tenerife per farmi qualche sentiero su al Teide e deciso che il giorno seguente mi sarei imbarcato per Las Palmas.

Conclusione

A Las Palmas iniziava in quei giorni il carnevale. La musica e i sorrisi imperversavano al pari delle birre e del rum distillato localmente, l’Arehucas. Anche se ne ho visto solo l’inizio, è stato sufficiente per farmi l’idea di uno spettacolo di due settimane di musica e colore, dirette televisive e presenze mediatiche da fare impallidire il nostro Sanremo, ma anche vie intervallate di baracchini per la vendita di birra a go-go, palchi per le band e piste popolari supplementari per il ballo open air di fronte al porto dalle 22.00 in poi.

Sempre pronti a intervenire a raffreddare i bollenti spiriti alcolici, una altissima densità di policia e autobotti. A vedere l’altissimo tasso alcolico iniziale – con locali spesso chiusi per sovrappopolamento o per rissa fin subito dopo la loro apertura – non riesco nemmeno ad immaginare cosa sarebbe diventato il Carnevale nella settimana conclusiva, quando sfilate, scuole di ballo, maschere e coinvolgimenti popolari scendono sulle strade, affollando la città da Piazza Santa Catalina fino al quartiere di Triana, cinque lunghi chilometri di follia, colore e calore.

Senza conoscere questo – sicuramente festoso – epilogo, steso al sole della spiaggia di Las Canteras a distanza di oltre un mese ho ritrovato dal primo all’ultimo i suoi “coloriti” protagonisti. Ho riposato guardandomi attorno – in cerca d’avventure? – e tirato una piccola somma sulla mia vacanza. Un viaggio che finisce è sempre qualcosa di triste…

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